Non passa un giorno senza che mi senta un’inattrezzata esponente del genere femminile o una femminista carente ed è colpa soprattutto del mio anelito all’assertività. Mi piacerebbe tantissimo essere una di quelle persone che non solo sanno esattamente cosa vogliono, ma sanno come esprimerlo, ma purtroppo sono sempre stata quell’altra, quella che chiede scusa se viene urtata in metropolitana e che non manda indietro un piatto di zuppa neanche se ha visto il cameriere lavarcisi i piedi dentro. Un tempo si sarebbe detto che sono uno zerbino, oggi abbiamo trovato la più altisonante ed esotica definizione di people pleaser (cioè zerbino, ma in un’altra lingua).

Con un lento, spesso impercettibile, lavoro su me stessa sto cercando di migliorare questo aspetto del mio carattere, ma la strada è ancora lunga: una ricca sezione della mia libreria è occupata da libri su Nelson Mandela che non avevo desiderio di comprare, accetto lavori che non ho voglia di fare e il mese scorso ho regalato i miei organi interni.

Il documento

Ero al Comune di Parma a rinnovare il documento di identità (vivo a Milano da dodici anni, ma la residenza è ancora un miraggio lontano quanto la mia capacità di dire «no, grazie» a qualsiasi venditore ambulante), un momento già di per sé delicato, perché avevo fatto una fototessera quella mattina e dalla macchinetta era uscita l’immagine quadruplicata di una vecchia con la faccia a pezzi, nonostante avessi usufruito di tutti e tre gli scatti disponibili, arrendendomi alla fine a selezionare il “migliore”, cioè un ritratto in cui dimostravo l’età che avrei avuto alla scadenza del documento che mi accingevo a rinnovare.

Il documento precedente era del 2012 e per la foto della carta d’identità digitale allora avevo posato direttamente in Comune, davanti alla telecamerina di un computer che non era esattamente Richard Avedon.

Il tutto si era risolto velocemente: mi avevano ficcato una graffetta in testa per tenere la frangia lontana dagli occhi e avevano scattato il ritratto che mi avrebbe accompagnato per i successivi undici anni, senza neanche chiedermi se mi piaceva (ovviamente non mi piaceva, ma quello che loro non sapevano è che non avrei mai osato dirlo).

Prenditi i miei organi

Questa volta partivo ancora più scoraggiata, perché avevo tra le mani quella foto che mi faceva sentire il cavallo del Guernica e mi ero appena presa in pieno uno squasso di pioggia non previsto: avevo l’aspetto di un mocio Vileda, e l’idea di ritentare una nuova serie di scatti alla macchinetta del Comune era andata a farsi fottere insieme alla mia piega.

«Nessuno viene bene in queste foto» sente il bisogno di dire la signora che sbriga la mia pratica, con un sorriso benevolo venato di compassione che la mette al riparo da eventuali insulti (quello che lei non sa è che non l’avrei mai insultata).

Traffica con la fotocopiatrice, mi allunga dei moduli che compilo in silenzio, e poi d’un tratto, senza nessun preavviso, la signora mi chiede: «Vuole essere donatrice di organi?». Io esco dal mio corpo e rispondo «Sì!» con eccessivo entusiasmo, e mi rendo conto in quello stesso momento di farlo principalmente per non essere scortese.

Mi esce come un rutto, è un riflesso condizionato. Non ci posso fare niente. Il mio istinto mi porta sempre a scegliere come prima opzione la più totale condiscendenza, anche quando devo decidere cosa fare dei miei organi.

Per non essere scortesi

C’è una puntata di Unbreakable Kimmy Schmidt, esilarante serie di qualche anno fa creata da Tina Fey per Netflix, a cui ripenso ogni volta in cui mi sorprendo ad accettare ciecamente qualsiasi cosa.

La storia inizia così: la protagonista, Kimmy, e altre tre donne vengono ritrovate dopo quattordici anni in un bunker dove sono state tenute prigioniere da un sedicente reverendo pazzo (se vi state chiedendo come sia possibile far ridere con queste premesse non avete mai visto niente di Tina Fey e dovete correre a rimediare).

Le quattro “donne talpa”, come le inizia a chiamare la stampa, vengono quindi invitate in vari talk show a raccontare la loro storia e in uno di questi Cindy, la prima ragazza rapita dal reverendo quattordici anni prima, ricorda di essere salita sul suo furgone perché non voleva essere scortese.

«È incredibile cosa siano disposte a fare le donne per paura di essere scortesi», commenta il presentatore di Today Matt Lauer (nei panni di sé stesso). Nel mio caso: donare gli organi, senza neanche pormi il problema che questo avvenga da viva o da morta.

Buoni per finta

Non so se sia davvero una questione di genere e se esista effettivamente un doppio standard per l’assertività di uomini e donne (a naso, esiste) o se l’essere pippa al sugo sia un tratto caratteriale equamente distribuito tra tutti gli esseri umani di qualsiasi sesso, ma mentre tornavo a casa sotto la pioggia dopo essermi registrata ufficialmente come donatrice di organi e mi accertavo su Google che la suddetta donazione potesse avvenire solo dopo il mio decesso e tutti i tentativi necessari di rianimazione, realizzavo che stavolta mi era andata bene e che per fortuna era la scelta che avrei fatto anche se mi fossi presa trenta secondi per pensarci.

Ho concluso poi che essere donatrice di organi (di sangue, di soldi, di qualsiasi cosa) perché dire di no faceva brutto mi rende, intimamente, una persona ridicola e molto meno buona di quanto mi piacerebbe pensare. Ma non è meglio essere buoni per finta che stronzi per davvero? La domanda mi corrode il fegato, che a questo punto spero di non dover mai donare.

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