Per colpa di Instagram ho sempre l’impressione di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. O meglio: non sono mai nel posto giusto al momento giusto. Scorrendo i pallini delle stories, si susseguono varie contingenze nel corso dell’anno in cui tutti sembrano essersi messi d’accordo per andare al mare o in montagna o al Primavera Sound, e io sono sempre nella fossa a forma di deretano sul mio divano, ad attraversare il divertimento degli altri nella solitudine fisica e morale di casa mia. Hanno tutti un Google Calendar condiviso di cui non sono a conoscenza? C’è stata un’ordinanza pubblica che non ho ricevuto? Hanno promulgato una legge che rende obbligatoria la gita a Madonna di Campiglio per il ponte dell’8 dicembre?

È uno strano allineamento di pianeti che unisce le persone che conosco per davvero a quelle che seguo per divertimento o per masochismo. Sono tutti a sciare, e io sono qui. Sono tutti a Ibiza, e io sono qui. Sono tutti al concerto di Paola e Chiara e io sono qui.

La prima volta

E invece lo scorso weekend ero finalmente di là, nelle centinaia di migliaia di stories degli altri, tra le 90mila persone che sono confluite allo stadio di Wembley a vedere (e a condividere su Instagram) la reunion dei Blur, che è anche uno dei pochi motivi per cui metterei piede in uno stadio.

Mi piace pensare che sia stata una reunion anche con me stessa: avevo già visto i Blur a Londra nella lontana estate del 2012 e tornare undici anni dopo è stata un’occasione per ritrovarmi diversa e fare i conti con il tempo che passa, un’attività che non posso dire di gradire più di tanto e che di solito cerco di evitare, come controllare il mio conto in banca e andare in palestra.

Avevo vent’anni la prima volta e mi trovavo a Londra con la mia amica Anna (maggiorenne da un mese), con cui ci eravamo messe in testa di lavorare per qualche settimana in terra straniera. Lavorammo poco, ci divertimmo molto, e finimmo in un paio di situazioni che se ci ripenso adesso è un miracolo che non ci abbiano trovato sventrate in un cassonetto dell’immondizia. Ma grazie al potere allucinatorio tipico dell’età, sentivamo nell’aria un senso di possibilità infinite. Non poteva succederci niente di male.

In effetti si erano avvicendati una serie di colpacci fortunati che avevano corroborato la nostra illusione di onnipotenza. Avevamo trovato una camera stranamente abbordabile in una bella casa a Borough, il bagno aveva addirittura la finestra, e il nostro coinquilino e proprietario di casa era una specie di fratello Weasley, ma più attraente, che faceva il chitarrista in tour per Bryan Ferry e ci offriva un sacco di canne comprese nell’affitto.

Io e l’Anna ridevamo un casino, guardavamo film di Jim Jarmush in salotto e cucinavamo caponate senza esserne capaci credendo di fare bella figura con il coinquilino figo, che probabilmente ci odiava ma non lo dava a vedere (aveva venticinque anni e una carriera di tutto rispetto, difficile che fosse felice di avere in casa due adolescenti ridanciane che consumavano tutta la sua erba).

Il miracolo

Forti di questa irrazionale positività, decidemmo che saremmo riuscite anche a vedere il ritorno dei Blur a Hyde Park, anche se la data era sold out da mesi. Lo stabilimmo il giorno prima, con tutti i presupposti per un clamoroso fallimento. Eppure, dopo una grossolana ricerca su Gumtree (sito inglese di annunci di qualsiasi cosa dove avevamo già trovato casa Weasley e di cui eravamo quindi grandi fan) avevamo individuato l’annuncio di una ragazza che non solo vendeva ma svendeva i suoi biglietti.

Ci dava appuntamento l’indomani, poco prima del concerto, a uno dei cancelli di Hyde Park, il che avrebbe potuto sollevare alcune domande (tipo: perché non ci va lei se può essere lì mezz’ora prima del concerto?) ma noi accettammo questa ennesima benedizione dell’universo senza porci il problema.

Contro qualsiasi logica e senza accesso a Google Maps il giorno dopo trovammo questa ragazza, questa ragazza onesta e santa, esattamente dove ci aveva detto. Le comprammo i biglietti in contanti e, di nuovo contro qualsiasi logica o legge statistica, li passammo all’ingresso senza intralci. Seguirono varie ore di birre calde e emozioni forti.

Grandi momenti

Sabato scorso a Wembley ho ripensato molto a quel giorno. Mentre immaginavo che da qualche parte nel mondo ci dev’essere un ritratto di Damon Albarn che se la passa malissimo, perché lui è esattamente uguale a undici anni fa, realizzavo che io invece non sono più quella persona, non le somiglio neanche. Stavolta avevo comprato i biglietti con mesi di anticipo (erano posti buoni e costosi, con la possibilità di sedersi), la birra era fredda, e farmi le canne è ormai fuori questione da un pezzo, da quando ho fatto un tiro a una festa l’anno scorso e ho vomitato come se avessi preso l’ayahuasca.

È rimasta però l’emozione un po’ infantile di cantare a squarciagola le canzoni dei miei vent’anni (anche se appartengono ai vent’anni della generazione prima), in mezzo a migliaia di inglesi più carichi che mai. È rimasta la canzone di chiusura, The Universal, che anche stavolta mi ha fatto piangere, proprio come nel 2012. È rimasta la sensazione di aver preso parte a un grande momento e la gratitudine di poter dire: io c’ero. E stavolta ne ho le prove su Instagram.

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