Novanta anni sono trascorsi dal 29 giugno del 1933 in cui Primo Carnera tolse al campione Sharkey il titolo mondiale dei massimi. Lui fu bravo con i pugni, il fascismo cercava miti per sé stesso e nulla meglio si prestava di quella figura di “gigante buono” che grazie al “grande cuore” riusciva a farsi largo a suon di pugni nella vita, volando di potenza al di sopra di qualsiasi sospetto mercimonio.

Chi firma questo pezzo e nato dieci anni dopo quell’evento e in mezzo al rombo della guerra, proprio a Sequals nella villetta Mora, il nome da ragazza di mia madre, contigua tramite l’orto a quella dei Carnera. Primo e Lina s’erano trovati insieme tra i banchi della scuola comunale sebbene lui, più volte bocciato in quei tempi senza don Milani e insegnanti di sostegno, la superasse di esatti quattro anni e di oltre mezzo metro di statura. Lei di sicuro, figlia di imprenditore e nipote d’un astronomo, una mano gliela dava perché, le venne di raccontarcelo una volta, e quella volta sola, era naturale prendere a benvolere quel gigante (già d’allora) che girava a piedi scalzi e zoccoli su spalla per badare a risparmiarli.

La carriera

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Negato agli studi letterari, al poderoso Primo (da notare il numero ordinale con cui le famiglie di campagna sequenziavano i figli, per distinguerli senza starci su a pensare) s’aprì la via del lavoro nel cantiere a rimestare cemento e spingere carriole. Ma aveva fiuto bastevole per capire di essere diverso e presto cercò di mettere meglio a frutto i suoi muscoli e talenti, dapprima come lottatore dentro un circo e poi ventiduenne sul ring, il 12 settembre del 1928. Dopo cinque anni stese Sharkey conquistando la corona di Campione.

Il mito

Presto cedette il titolo a chi boxava meglio, ma il mito ormai era piantato perfino nel Duomo di Milano che in quei tempi di pappa e ciccia dell’arcivescovo del

Duce, fu ben lieto di dare il nome di “Primo Carnera” ad uno dei due pugili di marmo che si scambiano pugni fra le guglie. Primo, ovviamente, cercava di campare di quel mito, dato che altro non aveva a parte la casetta dentro Sequals e, dopo il pugilato, si volse al mondo dell’intrattenimento, dapprima con il wrestling e le lotte finte e poi, già cinquantenne, con particine in qualche film adatto. In Ercole e la Regina di Lidia (1959) gli toccò la parte di Anteo, il gigante che Ercole strapazza staccandolo cì di peso dal contatto con la Terra (sua madre Gea) che all’istante gli ricaricava l’energia. Inutile dire che Ercole (Steeve Reeves, il primo dei culturisti da proscenio) era allora un monumento di freschi muscoli e bellezza, mentre Carnera contribuiva con la stazza. Sicché per le spettatrici, almeno fuori di Sequals, lo scontro era bell’e che deciso.

L’eroe locale

Sequals, ai piedi delle Alpi, duemila abitanti e un paio di chiese, ebbe fino agli anni Sessanta le strade di pietrisco; l’acqua non arrivava da sola nelle case, ma la portava il barile a ruote riempito presso l’unica fonte al centro della piazza fra lunghe attese e discussioni. Il paese nel primo dopoguerra, altro che armonia agropastorale, aveva avuto la sua dose di manganello e ricino propinato da paesano a compaesano.

Nel secondo dopoguerra il Miracolo economico, i vigneti di pianura, le forniture all’esercito dislocato in Friuli contro le minacce sovietiche da oriente, portarono sviluppo; gli indennizzi del terremoto del 1976 furono ben spesi. E oggi il paesello è lindo e pinto.

In tutti questi anni, i nati a Sequals, trovandosi a sillabare a uno sportello quel nome impronunciabile, sapevano che sarebbe seguita puntuale la domanda: «Proprio il paese di Carnera?». Gestire con signorilità questa “gloria derivata” metteva a dura prova la modestia e offriva l’occasione per ottenere timbri non previsti dal diritto.  Così “Carnera” era una sorta di bene comunale e tutelato, come spiega una segreta vicenda nel cuore della guerra.

Da icona a bersaglio 

Nel pieno della Repubblica sociale Carnera, che meglio avrebbe fatto a consigliarsi – come a scuola – con mia madre, fu arruolato  nei cinegiornali della Rsi e pronunciò sullo sfondo dei palazzi di Venezia, qualche parola d’occasione. Le frasi non dicevano alcunché ma la forza dell’icona c’era tutta associando ai repubblichini di Salò quel misto di bontà, durezza e lealtà su cui il mito di Carnera s’era costruito. Tanto bastava perché Carnera si ritrovasse ad essere un bersaglio nello scontro fra fascisti e partigiani, tant’è che, in una notte senza luna, quelli d’un paesello vicino a Sequals organizzarono una spedizione per trucidare il Mito a casa sua.

Ma i partigiani di Sequals, garibaldini e più o meno comunisti essi stessi, subodoravano il pericolo e presero a sorvegliare a turno la casa di Carnera. Non erano più teneri di cuore dei vicini (c’era anche mio zio a comandare, un sottufficiale sfuggito per un pelo alla trappola in nord Africa). Ma avevano assai chiaro che chi e quando colpire tra i fascisti era affare di paese, lì sarebbe giunta la corrispondente rappresaglia. Così, grazie a un misto di calcolo militare ed al retaggio politico del comandare a casa propria, i partigiani “di fuori”, ammoniti dalle parole e dalle armi, se ne tornarono di corsa a quella loro.  

Padrone di sé stesso

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Non sapremo mai quanto Carnera abbia colto delle complessità in cui viveva immerso. Da boxeur era un oggetto in mezzo agli intrighi dei manager che si contendevano i frutti del colosso, mentre lui andava di ring in ring dandole, prendendole e rischiando la pelle al limite del temerario, perfino contro fenomeni come Joe Louis. Ma forse l’istinto di conservazione ce l’aveva forte e smise di prendere pugni giusto in tempo per non distruggersi il cervello e potersi inoltrare nello spettacolo sulla spinta del suo mito.

Scrutandolo da lontano nel corso di uno dei suoi frequenti ritorni nel paesello (dove noi, da cittadini, passavamo l’estate con i nonni) non pareva che i pugni l’avessero leso nel cervello, mentre, a ripensarci, era chiaro che l’università della vita gli aveva tolto il troppo d’incanto dallo sguardo. La moglie “americana”, i figli, maschio e femmina, certo di lui molto più belli, attestavano un patrimonio d’affetto capace d’affrontare il taglia e cuci di paese. Affezionato, ma inevitabilmente un po’ geloso di quella straniera che Carnera glielo aveva un po’ rapito.

Resta il dato che Primo Carnera decise infine di tornare a Sequals per morirvi (nel 1967) ed essere seppellito, nel cimitero comunale. «L’ho fatto in segno di gratitudine verso la terra natia e il suo popolo. Alcuni fra i miei primi ricordi sono di quando giocavo con le pecore nelle colline di Sequals: non potevo mai dimenticare da dove ero venuto», dice oggi per suo conto l’intelligenza artificiale. A parte la lingua da tabloid, in effetti Primo Carnera lì nacque, lì morì e lì di certo sopravvive.

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