Federico Finchelstein è uno storico che si occupa della continuità tra fascismo e populismo, ha appena pubblicato per Donzelli il suo nuovo saggio Mitologie fasciste, qui un estratto delle conclusioni.


Per i fascisti nella creazione dei miti si realizzava la ricerca suprema di una verità assoluta, che si attuava collegando i vecchi miti ai nuovi miti politici. Come Sigmund Freud aveva compreso, e Adolf Hitler esplicitamente affermato, nel mito di Prometeo, come in altri della classicità, i fascisti scorgevano una chiara connessione con un passato aureo. Il mito forniva una via d’accesso per immaginare il presente.

Uno dei maggiori intellettuali fascisti latinoamericani, Leopoldo Lugones, sostenne che quello di Prometeo era il punto di partenza cruciale per comprendere i moderni miti politici nazionali dell’Argentina. Il sacerdote clerico-fascista Leonardo Castellani, in effetti, definì lo stesso Lugones «un creatore di miti».

Lugones aveva canonizzato il più importante mito della sua nazione: quello del Gaucho. In seguito tentò di consolidare il mito del primo moderno dittatore argentino, il generale José Félix Uriburu. Al tempo stesso in cui li creava, Lugones tendeva a considerarli integralmente veri, come la continuazione di tradizioni mitiche metastoriche.

In una società argentina che ai suoi occhi era «squilibrata» e caratterizzata da una «crisi di immoralità, anarchia e femminismo», Lugones contrappose alla mancanza di interessi mitologici la profonda verità del mito.

Il leader fascista brasiliano Plinio Salgado subì a sua volta l’influsso del pensiero mitico, e come Lugones pensò che l’America Latina fosse destinata a essere l’ultimo contenitore dello sviluppo autoritario della tradizione occidentale. Invece di Prometeo, però, egli voleva incarnare il mito di Atlantide, per diffondere la dottrina fascista brasiliana dell’integralismo nel continente sudamericano. «Siamo gli ultimi dell’Occidente», proclamò solennemente.

Questa integrazione fra la personificazione del capo e un mito classico e i moderni miti latinoamericani prospettava mutamenti apocalittici. L’America Latina si avviava a prevalere su tutte le altre parti del mondo.

Nella traiettoria che collegava i fondamenti del mito classico alla moderna mitologia politica del fascismo svolgeva un ruolo centrale l’idea che la violenza, come prodotto dell’imperativo mitico, e la verità fossero strettamente associate.

Le Blueshirts (camicie azzurre) irlandesi avevano scelto il colore delle loro divise rifacendosi a motivi mitici di natura sacrale, con riferimento al colore del santo patrono del loro paese. In Francia, nel passato mitologico creato dal Partito popolare, i fascisti vedevano nel loro capo Henri Doirot la personificazione di Giovanna d’Arco.

I fascisti cinesi, che avevano a loro volta adottato come propria divisa le camicie azzurre, affermavano: «Se non possiamo usare la violenza per reagire alla forza, allora gli slogan di libertà, uguaglianza, democrazia e liberazione non potranno mai realizzarsi. Oggi dunque la Cina non può seguire altra strada verso la restaurazione se non quella di utilizzare un corpo assolutamente rivoluzionario come una forza violenta che sostiene il principio del primato della nazione».

La nazione davanti a tutto

Rome - After the bombing of Bologna (31 October 1926) against Mussolini, the huge crowd which gathered in Piazza Colonna and nearby streets listening to the famous speech of the Duce 'Now comes the fun' - Foto AGF

Porre al primo posto la nazione era un modo per affermare che tutti gli altri potevano essere repressi. Genere, colori e oceani non costituivano confini per la ricerca fascista della verità, che si pensava radicata nelle forze essenzialmente violente dell’inconscio.

Così, se i fascisti cinesi ritenevano che la violenza fosse il modo di realizzare la vera politica del popolo, quelli colombiani, i Leopardos, potevano proclamare che «la violenza, illuminata dal mito di una patria bella ed eroica, è l’unica cosa che possa creare per noi un’alternativa favorevole nelle grandi lotte del futuro».

I fascisti collegavano la violenza e la morte, nella politica e nonostante la politica, a un radicale rinnovamento dell’io radicato nel mito. L’invincibile trinità di capo, popolo e nazione non richiede una spiegazione che si aggiunga alla mera e costante asserzione della sua esistenza nel contesto politico del progetto fascista. È un mito che si sostituisce alla teoria come pratica di dedizione individuale e di violenza collettiva. Per i fascisti, l’eroe repressivo e violento rappresenta la vera storia del mito.

In un simile contesto, pochi erano i fascisti che teorizzavano il mito al modo degli antifascisti liberali e dei marxisti. L’eccezione in tal senso è rappresentata da Carl Schmitt, il quale sosteneva che «il mito è l’esegesi del simbolo», ma criticava chi come Freud non coglieva il simbolo. Ai suoi occhi, il padre della psicoanalisi svuotava la religione in nome della scienza, compiendo nel contempo «riti di deghettizzazione». La sua critica dei falsi miti del nemico non era strategica.

La lettura che Schmitt fece di Sorel lo portò ad analizzare il mito vedendovi una possibilità di politica autentica, la quale però non doveva essere razionale o emancipatoria, semmai il contrario.

Il mito è funzionale alla conferma di una storicizzazione con connotazioni teologiche, talvolta metastoriche. Di fatto, il suo testo sul parlamentarismo si conclude con Benito Mussolini. In questo senso, Schmitt sembra proporre l’idea dell’incarnazione del mito nel sovrano. Ma non era il solo a farlo. Nel fascismo i miti non erano metafore né simboli, proprio perché erano «incarnazioni».

Il fascista spagnolo Ernesto Giménez Caballero poté così scrivere: «Io comprendo che le gioventù italiane abbiano per il loro Duce una reverenza mistica, religiosa. Perché ne conoscono la vita. E hanno contemplato il suo sguardo, che dice loro d’un tratto più segreti di quelli appresi dalla loro stessa vita»; venerandolo, conoscevano il proprio io.

I sentimenti e le intuizioni erano quindi fondamentali per la concezione della propria personalità, per la manifestazione dell’io fascista. Il reciproco riconoscimento fra questi due aspetti innati dell’io prendeva necessariamente il posto delle dimensioni esteriori e soggettive della riflessività. Per Sergio Panunzio, se i fascisti avessero voluto «scavare profondamente» nel fascismo, avrebbero scoperto che «l’anima è l’essenza teoretica del fascismo»: il pensiero e l’azione erano «la stessa cosa».

L’incarnazione politica

Illustrazione di Marilena Nardi

Questa ricerca dell’essenza del comportamento intuitivo finalizzata alla comprensione della mitica incarnazione politica eliminava il pensiero come strumento di costruzione teorica, nel senso che nel fascismo il posto dei concetti veniva preso da presupposti mitici ideologici. Assumendo il tradizionale significato di teoria, non era possibile «teorizzare il fascismo». Generato dalla guerra come azione e spirito, esso rappresentava «un rigurgito naturale di corrente».

Per quanto strana possa sembrare questa assimilazione del vomito all’ideologia, l’analisi che ne consegue deve essere collegata al senso fascista del carnevalesco. Il mondo alla rovescia che il fascismo rappresentava nel campo della teoria politica eliminava l’esigenza della teoria. 

La teoria del fascismo era, di fatto, la realizzazione nella sfera politica della passione interna che lo spingeva a essere un incontro di forze. In quanto esteriorizzazione di moti interni, capovolgeva il campo della teoria politica, o almeno questo era ciò che i fascisti stessi volevano sostenere.

Il fascismo aveva rubato le dimensioni sovversive della rivoluzione al socialismo, senza nel contempo adottarne le astrazioni teoriche. In quanto nuova versione di più antiche strutture del mito, esso rappresentava il mondo interiore senza la presunta artificialità di quello esterno.

Prometeo e l’inconscio

Freud considerava il mito di Prometeo una dimensione portante della propria teoria del fascismo. Per molti fascisti, Prometeo significava la drammatica ricerca dell’inconscio o, per riprendere le parole di Volt, la tragica impotenza dell’uomo che cerca in sé stesso un senso della vita. Il fascismo rappresentava la risposta politica a questa ricerca di senso. La politicizzazione di questo inconscio offriva ai credenti il senso di una pienezza di significato.

La teoria del fascismo non era collegata alla realtà esterna, o, per dirla altrimenti, rifiutava di sottoporre la propria concezione dell’io al principio di realtà. I fascisti erano convinti che le realtà interne fossero più «reali» del mondo esterno. Nel processo che conferisce senso alla realtà, la soggettività prendeva il posto dell’oggettività.

La teoria non rappresentava più una risposta ragionata all’interazione fra soggetti, ma veniva concepita come una razionalizzazione di atti del sentimento. L’osservazione si rivolgeva, in modo impossibile, all’interiorità. Il fascismo non poté mai evitare il fatto ineludibile di essere una critica dell’ideologia e della concettualizzazione che sorgeva dall’interno stesso del mondo dell’ideologia e della concettualizzazione.

Questa radicale autoaffermazione portava all’effettivo ritorno delle pulsioni primarie nella sfera politica. In tal senso, il fascismo era non solo una forma concettuale, un modo di rappresentare la dimensione irrazionale, ma anche l’irrazionale stesso, poiché si esprimeva con pratiche estremamente irrazionali. Il ritorno del rimosso non veniva solo rappresentato, ma anche messo in atto nella prassi fascista.

Per Freud i miti erano dotati di un potere metaforico, e nelle sue opere utilizzò i miti storici come strumento di analisi dell’ideologia fascista. Anche Jorge Luis Borges pensava che il mito fascista fosse ancorato a una primitiva barbarie. Ai suoi occhi, la peculiare trasposizione del mito classico nella modernità di un presente che si supponeva secolarizzato costituiva il ritorno di un passato violento e mitico, privo di cultura, e inizialmente adottò un atteggiamento ambivalente, che sarebbe poi sfociato in un profondo disincanto critico.

In lui, come in Freud, l’esigenza di separare il mito dalla verità mostrando quanto esso si affidi alla liturgia, alla fede, alle emozioni e alle immagini non escludeva l’attenzione alle bardature della ragione.

Lo scrittore argentino osservava acutamente come, nell’affrontare il mito, la ragione non ricorreva solamente all’argomentazione. Il problema consisteva non solo nel fatto che quel mondo laico prospettato da Borges riproponeva le classiche distinzioni fra mythos e logos; esso adottava anche una immaginazione dai tratti violenti, affidandosi alle figure mitologiche degli uomini di potere. In questo duplice confronto con il fascismo, Borges si trovava all’avanguardia.

Paradossalmente, in lui, ma anche in Freud, la violenza simbolica contro i capi mitici porta all’apertura e presumibilmente alla democrazia. In Freud il parricidio simbolico della figura totemica del padre conduce a una struttura di potere più democratica, quella del gruppo dei fratelli. In Borges, gli dèi vengono semplicemente eliminati. Nel suo racconto Ragnarök, ad esempio, le divinità fanno ritorno in un mondo laico accademico, quello della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires (Uba), nella quale Borges insegnava.

La loro ricomparsa suscita dapprima gioia fra gli intellettuali che in quel periodo eleggono democraticamente le loro autorità accademiche, ma questo sentimento iniziale svanisce una volta che essi si rendono conto che gli dèi sono in realtà esseri violenti e capricciosi.

Apprendiamo poi che sono irrimediabilmente sprovvisti di cultura; sembrano perfino dei malevos (i teppisti di Buenos Aires), secondo l’immagine che l’autore, in una consapevole espressione del proprio elitarismo sociale, propone.

Lo stesso Borges compare nel novero dei professori del racconto, da lui presentato come un proprio sogno. Nel corso della narrazione, all’iniziale ammirazione espressa per gli dèi subentra il disincanto nei confronti del sacro, che conduce a una violenza radicale esercitata in nome della democrazia e del secolarismo.

I docenti dell’Università di Buenos Aires fanno fuoco con le loro pesanti rivoltelle e uccidono «gioiosamente» gli dèi. Questo motivo della violenza messa in atto in un contesto mitico – una violenza che, per quanto eliminata a sua volta violentemente mediante l’esecuzione di coloro che l’hanno promossa, rimane presente in quanto segna un’era post-secolare di violenza per il mito e contro di esso – costituisce uno dei temi principali dell’opera di Borges, che trova espressione, come abbiamo visto, soprattutto nel racconto Deutsches Requiem, pubblicato negli anni quaranta.

Per Borges, come per Freud, quando il mito viene a riprendere il suo posto nel moderno mondo secolarizzato è circondato dal sospetto, a causa della sua sostanziale mancanza di cultura, della sua natura ferina e, soprattutto, della sua negazione della ragione sul piano pratico. Per Borges e per Freud la moderna trasposizione del mito segnala l’operare di strutture mentali che si pensava fossero state represse ma da cui la ragione non riesce completamente ad emanciparsi.

Per entrambi, questa natura sintomatica del mito si fa ancor più problematica una volta che la spiegazione mitica si è trasformata in culto politico. Gli effetti di questa operazione comportano il ricorso alla violenza e infine la morte. Se Freud si rassegna all’impossibilità di sradicare davvero questa violenza, Borges la esplora facendone un motivo letterario e, diversamente da lui, la ritiene un oggetto di analisi al tempo stesso interessante ed attraente.

Ciò non è soltanto un effetto della sua critica antifascista, ma si collega anche al suo interesse per un passato mitico recente privo di qualsiasi natura politica. Il problema dei malevos dei suoi sogni è che essi vogliono diventare dei capi in un mondo laico, invece che figure violente di una Buenos Aires da poco scomparsa in cui imperversano accoltellamenti e duelli che lo scrittore esplicitamente innalza a fenomeni di natura mitica.

Allo stesso tempo, tuttavia, Borges tratteggia i vandali del suo racconto come figure brutali e ignoranti. Vi vede dei simboli del passato, relegando la loro primitiva violenza a un’era superata dai mondi laici nei quali essi vivono. Gli eroi sono simboli delle masse. Per Borges, come per Freud, gli eroi mitici sono espressioni tangibili o potenziali dell’irrazionalismo collettivo.

In Ragnarök gli dèi sono «quattro o cinque esseri [che] uscirono dalla turba». Questo rapporto fra un’autorità mitica e le masse amorfe rappresenta quella dimensione antipopulista del pensiero di Borges che in seguito egli svilupperà nella sua non molto concettualizzata transizione dall’antifascismo all’antiperonismo.

Nel clima onirico del racconto, l’elezione delle autorità universitarie evidenzia la dicotomia stabilita dall’autore fra ragione e mito politico. Dopo un «esilio di secoli», gli dèi sono perfino sospettati di non sapersi esprimere a parole, e ricorrono a immagini e suoni, «qualcosa tra il gargarismo e il fischio».

Gli dèi fascisti

La transizione dal mito classico a quello politico moderno appare come la «degenerazione della stirpe olimpica». L’uccisione degli dèi da parte dei membri della facoltà dell’Università di Buenos Aires mette in scena una cultura accademica che dà sfogo a una violenza assoluta. Questo attacco preventivo si svolge esattamente in difesa delle procedure elettorali democratiche, e diventa un motivo di violenza estrema in nome della cultura.

Naturalmente Borges rileva il paradosso, richiamando la nostra attenzione sul fatto che la reale uccisione degli dèi e gli strumenti di morte, le «pesanti rivoltelle», fanno parte di una sequenza onirica. È importante notare che il motivo che sta alla base della violenza è di natura tanto colta che mitica. In poche parole, nella critica borgesiana del nemico è presente anche una mitologia classista e razzista: gli dèi avevano «fronti basse, dentature gialle, baffi radi di mulatti o cinesi e musi bestiali», «le loro vesti non si addicevano a una povertà decorosa e onesta ma al lusso spregevole [lujo malevo] delle bische e dei lupanari dei bassifondi».

Gli dèi del mito politico sono alimentati dall’ignoranza e dalla paura. La loro presenza fa presagire altra violenza e distruzione. Essi rappresentano la violenza originaria, ma in chiave moderna incarnano anche il ritorno di una barbarie istintuale e mitica che Borges metteva in discussione mediante l’ironia.

È l’opera scritta a trasportare sul piano concettuale ciò che la teoria fascista si rifiuta di decifrare. Borges, come Freud, considerava il fascismo un mistero, per il suo rimanere radicato in una dimensione mitica. Ma non si tratta di un mistero difficile da comprendere al di fuori di sé stesso.

Solo per i fascisti esso non si presta ad essere spiegato in termini analitici. Se il fascismo respinge la parola scritta per presentarsi come un’affezione violenta, Borges e Freud contestano proprio questa fondamentale premessa. Il fascismo non rappresenta un programma per il futuro: è inscritto anzi nel passato.

Per entrambi i pensatori esso, in quanto mito vivente, può rappresentare solo il passato preistorico, quel momento in cui la storia non era ancora tale bensì mito. Per entrambi, il fascismo possedeva rilevanti dimensioni metastoriche. Era l’abominio della storia e il tentativo di ritornare al mondo mitico. Sia Borges sia Freud evidenziano come questo tentativo fosse segnato dalla violenza e dall’omicidio.

Per la maggior parte dei suoi storici, il fascismo aveva inventato la sua soggettività mitica, ma per Borges e Freud, pur mostrando elementi posticci e ricorrendo a trucchi, non era solo una costruzione concettuale, ma una realtà mitica che essi apertamente respingevano.

Ai loro occhi esso era allo stesso tempo la realizzazione politica di una fantasia e un mito vivente, che nella sua elementare violenza, nel razzismo e nelle gerarchie guidava le masse dei seguaci.

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