In una sala del Moma di New York c’è un uomo che guarda un quadro. Quel quadro, l’uomo ha l’impressione di riconoscerlo. Lo ha disegnato lui? Eppure porta in calce la firma di un altro uomo, ben più celebre: Roy Lichtenstein. Quel quadro, forse, è la prova di un furto. Un furto avvenuto oltre mezzo secolo prima. «Il furto (visivo) del secolo», lo ha definito il critico Matteo Stefanelli.

Russ Heath - questo è il nome dell’uomo nel museo - è morto nel 2018 all’età di 91 anni, ma pochi anni prima di morire aveva disegnato una tavola che raccontava proprio il suo incontro con quel quadro, nel quale ha riconosciuto un suo disegno di mezzo secolo prima. Ingrandito, semplificato, artefatto. E altamente valorizzato.

Il furto del secolo

«Il quadro Whaam! di Roy Lichtenstein è basato su una mia vecchia vignetta tratta da un fumetto di guerra della Dc Comics. Roy lo ha venduto per quattro milioni di dollari. Io non ho avuto niente. Zero». Così si apre la tavola, pubblicata da Stefanelli sul sito da lui diretto Fumettologica, con cui il disegnatore aveva raccontato la sua visita al Moma e i sentimenti contrastanti che gli aveva provocato la scoperta di essere stato plagiato dal celebre pop artist.

Questo faceva Lichtenstein: prendeva dei fumetti e ne faceva oro. Ma se furto è stato, Heath non è certo stato l’unica vittima. Lichtenstein era un ladro seriale? Forse, e questo non ne diminuisce la grandezza come artista. Ma c’era davvero bisogno di cancellare le tracce del suo crimine?

Se lo chiede anche Neil Gaiman, autore di Sandman e di vari libri di successo, scoprendo che il Museum of Modern Art di New York espone Lichtenstein senza accreditare gli artisti che lo hanno ispirato. Corpo del reato il dipinto Drowning girl, tratto da una copertina disegnata da Tony Abruzzo. Il critico Francesco Boille ha fatto circolare in Italia il suo appello per un maggiore riconoscimento dei fumettisti.

Abruzzo e Heath erano quelli che impropriamente si definiscono dei “mestieranti” del fumetto popolare. Heath è nato nel 1926, ha illustrato centinaia di fumetti di genere (soprattutto guerra) a partire dagli anni Cinquanta. Mestierante? Eppure basta osservare i suoi disegni per notare che l’artista ha uno stile ben riconoscibile, caratterizzato da una particolare attenzione per la profondità sia nelle inquadrature, articolate su due o più piani, che nel trattamento grafico, che può ricordare le tecniche incisorie.

Come dei diorama le sue tavole riuscivano a essere immediatamente chiare, ordinate, leggibili, pur conservando un grande dinamismo. D’altronde questo è vero per molti dei “mestieranti” che si avvicendavano sulle testate di guerra, d’avventura o d’amore di quegli anni: nomi come Alex Toth, Gene Colan, Joe Kubert e Jack Kirby. Ognuno con il suo stile ben riconoscibile, questi autori faranno letteralmente la storia del fumetto americano e precisamente della sua Silver Age, il periodo della storia dei fumetti statunitensi convenzionalmente situata tra il 1955 e il 1970.

Oggi il nome di Russ Heath viene ricordato esclusivamente dagli addetti ai lavori, che pure gli hanno tributato uno tra i più alti riconoscimenti nella professione facendolo entrare nel 2009 nella Hall of Fame dei Will Eisner Awards.

Al termine di una carriera durata più di mezzo secolo, il disegnatore ha vissuto in ristrettezze economiche con una pensione minima: destino comune a molti altri artisti delle sua generazione, che venivano pagati a pagina, lavoravano a ritmi forsennati per la macchina dell’intrattenimento di massa e non toccavano alcuna percentuale sulle vendite.

Eppure l’arte di Heath era già entrata nei musei (e dunque nella storia) molti anni prima. Involontariamente. Senza assicurargli alcuna gloria. E, soprattutto, senza fargli guadagnare nemmeno un quattrino.

Heath non è certo il solo fumettista ad avere ispirato Lichtenstein. Tra i fumetti utilizzati ci sono sia lavori di mestieranti anonimi sia di autori di primo piano e indubitabile talento. Nella lista, che come ci ricorda Stefanelli è stata resa possibile dal lavoro filologico di David Barsalou sul suo sito Deconstructing Roy Lichtenstein a partire dagli anni 2000, si trovano nomi come Gil Kane, Ross Andru, Joe Simon, John Romita, Irv Novick, Mike Sekowsky, Joe Kubert e molti altri.

Nel maggio del 1963, il disegnatore William Overgard reagiva a un articolo sulla pop art di Time magazine scrivendo una lettera ironica alla rivista che attirava l’attenzione sulla somiglianza tra il quadro I can see, esposto al museo Guggenheim e una sua vignetta della serie Steve Roper, ritenendo il prestito «Molto lusinghiero, almeno credo».

AP Photo/Ted Shaffrey

Il disegno mostra un uomo che guarda attraverso lo spioncino di una porta entro una stanza interamente buia; da parte sua, la critica parlerà di una chiara influenza del Quadrato nero di Kazimir Malevich, dipinto monocromo del 1915 rappresentativo della corrente del suprematismo russo.

Per molti di questi disegnatori colpisce la sproporzione tra il contributo (enorme) alla cultura americana e il plusvalore economico (poco) che ne hanno ricavato. Anche per questa ragione Gaiman è insorto, seguito da vari altri suoi colleghi.

Dai tempi di Joe Shuster e Jerry Siegel, creatori di Superman nel 1938, è noto il rischio connesso al mestiere di fumettista: quello di farsi rubare i frutti del proprio talento, del proprio lavoro, della propria fantasia o anche soltanto della propria fortuna. Si tratta, bisogna ammetterlo, di rischi che appartengono a ogni mestiere creativo.

Ma quello che ha reso così particolare la condizione dell’autore di fumetti popolari nel corso del Novecento era forse la convergenza tra la poca considerazione artistica di cui ha goduto e l’influenza dirompente, sebbene sotterranea, del suo lavoro. Ricordare un’ultima volta Russ Heath, Tony Abruzzo e tutti i “mestieranti” che hanno colorato il mondo, ci pare il minimo risarcimento.

Il grande prestito

Da parte sua, Roy Lichtenstein incarna invece alla perfezione la figura di chi ha saputo monetizzare quel patrimonio. Si tratta probabilmente di uno dei casi di prestito, per usare il termine invalso nella letteratura critica, più importante e clamoroso dell’intera storia dell’arte contemporanea.

Nato nel 1923 a Manhattan, Lichtenstein si diploma in arte alla Ohio State University e da principio tenta la sua strada tra cubismo, espressionismo ed espressionismo astratto, interessandosi anche ai temi della cultura popolare americana. Ma è soltanto nel 1961, sulla soglia dei quarant’anni, che l’artista capita sull’idea - che lo proietta direttamente nella celebrità - di adattare delle vignette di fumetto.

Il primo esperimento in tale direzione è Look Mickey. Si tratta di  un dipinto ad olio di 121,9 x 175,3 cm che mette in scena Paperino e Topolino che pescano, o meglio che provano a pescare: l’ingenuo Paperino ha involontariamente catturato con l’amo la propria coda piumata ed esclama «Guarda, Topolino, ne ho preso uno grosso!» mentre l’amico se la ride. 

Il disegno è ispirato a un’illustrazione (non precisamente un fumetto) degli sconosciuti Bob Grant e Bob Totten tratta dal libro Donald Duck Lost and found del 1960; mentre la frase è esattamente la stessa che appare nella didascalia originale, trasformata però in un filatterio che esce dalla bocca di Paperino.

Di fatto Lichtenstein accentua gli elementi fumettistici: semplificando e deformando il disegno per renderlo più brutto, accentuando i colori per ottenere una perfetta tricromia e riducendo gli elementi (acqua, pali, scarpe, bottoni) a un maggiore iconismo.

Dal punto di vista dell’artista non si tratta di rappresentare una scenetta divertente, ma di mostrare - e forse stigmatizzare? - quello che il pubblico di massa trova divertente. Il risultato è un lussuoso oggetto artistico che serve a confermare i pregiudizi della borghesia newyorkese, una vera e propria illustrazione delle teorie formulate dai sopracigliosi critici che giravano attorno alla rivista Partisan Review, difensori della “cultura alta” contro l’invasione del kitsch.

L’idea piace subito al collezionista Leo Castelli, già promotore di Wassily Kandinsky, Jackson Pollock, Jasper Johns e molti altri, che lo espone nella sua galleria. Da quel momento in poi, Lichtenstein si applica a perfezionare la sua intuizione. Nasce così - se ci è permessa tanta sintesi - il fenomeno della pop art, anticipato nel quindicennio precedente dai collage di Eduardo Paolozzi e Richard Hamilton.

In effetti l’arte, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, cerca in qualche modo nuove risorse espressive, nuovi linguaggi e nuove estetiche e così trova nel fumetto un bacino perfetto per nutrire questa necessità: una forma espressiva del tutto vergine, nel senso che non vi si era mai attinto in maniera sistematica.

L’orinatoio della cultura

L’interesse per il fumetto incarna alla perfezione un’inedita attenzione alla dimensione popolare, coerente con le nuove missioni che l’arte sta cercando di darsi in seno alla società del dopoguerra. Roy Lichtenstein non è certo il primo a integrare elementi fumettistici in opere d’arte: ad esempio Kurt Schwitters, già reduce dal dadaismo, aveva integrato dei ritagli di fumetto in una sua opera del 1947; mentre l’americano Jess Collins aveva realizzato nel 1958 un collage (Tricky Cad) a partire da pagine di Dick Tracy. Oltreoceano, in quello stesso periodo l’Internazionale situazionista aveva iniziato a produrre i suoi primi détournements come vignette di Flash Gordon corrette con dialoghi rivoluzionari.

Insomma per tutti questi artisti si trattava di attingere a una banca di simboli legati al mondo del consumo industriale, distante dalle logiche nobili dell’immaginario artistico. Il senso di questa operazione era ambivalente: l’identità bassa del fumetto serviva spesso a stigmatizzare la vacuità della cultura popolare, cioè manifestava una sorta di disprezzo per quel materiale; ma di fatto ribaltava il rapporto tra alto e basso, esaltando (più o meno involontariamente) la ricchezza del patrimonio saccheggiato.

Era già il paradosso del Ready-made di Marcel Duchamp: esponendo un orinatoio come se fosse un’opera d’arte (Fontana, 1917) l’artista modifica il nostro sguardo su quell’oggetto triviale e in un certo senso lo esalta; e d’altra parte l’ironia del suo gesto consiste proprio nel partire dal più triviale degli oggetti.

Proseguendo quel discorso mezzo secolo più tardi, i pop artist sembravano dare per scontato che il fumetto fosse una sorta di orinatoio della cultura, uno scarto espressivo sedimentato nei recessi più infrequentabili del corpo sociale. Ma se il loro fu probabilmente un errore di giudizio, è proprio grazie a questo errore che il fumetto è riuscito a penetrare nella cittadella fortificata della “cultura alta”.

Il metodo Lichtenstein

Foto LaPresse/ Matteo Corner 30 Aprile 2019, Milano Presentazione mostra di Roy Lichtenstein al Mudec

Anche Andy Warhol aveva avuto un’idea molto simile a quella di Lichtenstein, dedicando fin dal 1960 dei dipinti al Dick Tracy di Chester Gould, al Popeye di E. C. Segar, alla Nancy di Ernie Bushmiller e al logo di Batman; ma è proprio Castelli a consigliarli di lasciare campo libero al collega più anziano, per concentrarsi sullo star system e sugli oggetti di consumo.

Da parte sua Lichtenstein preferirà abbandonare i personaggi più iconici e riconoscibili per riciclare elementi più anonimi (volti, oggetti, dettagli) da artisti che ritiene anonimi. Dall’anno seguente l’artista fissa quello che diventerà il suo riconoscibilissimo stile, fatto di grossi puntini che imitano i cosiddetti ben-day dots della stampa industriale, nonché le sue fonti predilette ovvero i comic book di guerra e di amore, con i loro stereotipi di uomini (virili e decisi) e donne (fragili e confuse).

Lichtenstein seleziona singole vignette di fumetti popolari, e opera una specie di semplificazione e amplificazione dei dettagli grafici: ricalcando e riproducendo il segno, ma anche ripulendo e enfatizzando alcuni aspetti. Ed è così che in un paio di anni dipinge i suoi quadri più celebri, come Drowning Girl, Oh, Jeff o appunto Whaam! in cui Heath ha riconosciuto senza ombra di dubbio la prova del crimine di Lichtenstein. 

Ma la memoria fa brutti scherzi: il quadro ispirato a Heath, in realtà, non è quello da lui citato e addirittura ridisegnato nella sua tavola autobiografica. Lichtenstein copiò da lui - precisamente dalla testata All-American Men of War n. 89 - ben due quadri, Brattata e Blam.

Il primo, del 1962, è il primissimo piano di un pilota nell’abitacolo di un aereo di guerra mentre abbatte («Brattata») i suoi nemici. Il secondo, dell’anno seguente, mostra in maniera molto più stilizzata l’esplosione in volo («Blam») di un aereo. Il disegnatore di Whaam! era, invece, Irv Novick, altro grande autore - oltre che diretto superiore di Lichtenstein ai tempi della guerra - che lascerà una visibile impronta stilistica sul Batman (e sul Joker) della cosiddetta bronze age (1970-1985).

Ma il primo ad avere problemi di memoria era proprio Roy Lichtenstein, che nelle varie interviste in mezzo secolo di carriera non riesce a mai a ricordare il nome delle sue fonti e talvolta addirittura le falsifica. Secondo la sua ricostruzione, ad esempio, il disegno di Look Mickey verrebbe dalla carta di una gomma da masticare.

Si tratta di una giustificazione densa di significato se pensiamo alla connotazione simbolica di quel bene di consumo: un prodotto industriale usa e getta, dal sapore chimico, che assomiglia a un alimento ma non nutre. Una metafora bella pronta. Tant’è che Dwight Macdonald, nel suo influente saggio A theory of mass culture pubblicato nel 1953, scriveva appunto che «l’espressione “cultura di massa” indica dei beni prodotti esclusivamente per il consumo di massa, proprio come la gomma da masticare».

In verità il disegno originale di Look Mickey viene da un libro in cui i nomi degli autori sono chiaramente scritti, ma la costruzione della leggenda della pop art passava necessariamente da questa parziale alterazione della memoria, ovvero sovrascrivendo la mera realtà con un simbolo assai più potente e soprattutto codificato.

Nel corso dei decenni, mentre i dipinti di Lichtenstein diventavano opere di straordinario valore economico e culturale, i nomi delle sue fonti sono rimasti oscuri, tranne per pochi addetti ai lavori. Gli stessi critici d’arte (che parlando appunto di «prestito» dimenticano che questo implica a un certo punto una restituzione del maltolto) non si sono mai interessati alla faccenda, considerando quelle immagini dei puri e semplici prodotti di consumo senza alcuna originalità.

Come aveva scritto nel 1962 Time magazine nel suo primo articolo dedicato alla rivoluzione della pop art, nel quale Warhol era fotografato intento a dipingere la sua famosa zuppa prima ancora che venisse esposta e celebrata, «un gruppo di artisti è arrivato alla conclusione condivisa che gli elementi più banali e persino volgari della civiltà moderna, quando vengono messi su tela, diventano arte». E se invece lo fossero stati fin dall’inizio?

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