Alle tre di notte dell’8 gennaio 1978, una banda paramilitare entrò con la forza nella casa del mezzofondista Miguel Benancio Sánchez, 25 anni, impiegato di banca che voleva qualificarsi per le Olimpiadi di Mosca 1980. Fu bendato e trascinato via. Ci vollero anni perché la sua storia e il suo ricordo diventasse pubblico. Maradona disse: «Non voglio morire senza sapere la verità su di lui e gli altri 30mila desaparecidos». Un tema di nuovo attuale nell’Argentina di Milei. Domenica la gara nel nome del giovane argentino Sánchez
Alle tre di notte dell’8 gennaio 1978, una banda paramilitare entrò con la forza in una casa di Berazategui, nel sud della Gran Buenos Aires, in Argentina. In un pugno di secondi buttò giù la porta della camera del mezzofondista Miguel Benancio Sánchez, 25 anni, impiegato di banca con due sogni nel cuore: qualificarsi per le Olimpiadi di Mosca del 1980 e diventare professore di educazione fisica studiando in una scuola serale.
Gli uomini armati erano otto, scaraventarono per terra tutti gli scaffali della biblioteca, gridando isterici: «Dove sta la tua agenda? Ora vieni con noi, brutto figlio di puttana». E lui fu costretto davanti ai mitra spianati ad andare. Nel senso che finì in uno dei 340 centri di detenzione clandestini che funzionavano in quel momento nel paese sudamericano sotto la scacco della dittatura.
Un’epoca tragica che l’attuale governo argentino presieduto da Javier Milei ha preso a ridurre, occultare, nascondere fino al punto, è successo nelle ultime feste natalizie, di licenziare con un telegramma 510 delle 1050 persone che lavorano per la Segreteria dei Diritti Umani della Nazione e l’Archivio della Memoria, che ha sede proprio nell’ex Esma, la caserma con il primato dell’orrore e del numero dei desaparecidos.
Un luogo che con il suo Museo della Memoria è un sito Unesco patrimonio mondiale dell’umanità. Fra i licenziati ci sarebbe anche la ricercatrice che aveva lavorato sui messaggi scritti sui muri dai sequestrati nel momento della detenzione, prima di essere drogati e salire sui voli della morte per fare la fine che è tristemente facile immaginare.
Il rapimento
Miguel fu bendato, trascinato via e caricato sul solito Ford Falcon nero simbolo del terrore. Un terrore che aveva le sue ore predilette perché ciò che era avvenuto in Cile di giorno, con lo stadio lager di Santiago in prima pagina in tutto il mondo, in Argentina succedeva rigorosamente di notte, lontano da ogni riflettore.
Javier Casaretto, uno dei suoi compagni di prigionia sopravvissuti, raccontò di una persona dall’accento “tucumano” (Miguel era appunto di Tucuman) che aveva partecipato pochi giorni prima a una corsa in Brasile (in effetti, prese parte alla Corrida di San Silvestro a San Paolo) e che strillava, unico in quel contesto dove l'unico "rumore" era quello delle voci violentate dei torturati, «che cosa state facendo? Io ho rappresentato l’Argentina, sono un atleta, che volete?». Frasi che caddero in un burrone feroce. Come quelle di tanti suoi connazionali, trentamila, anche se oggi la narrazione di Milei e della sua vice Victoria Villarruel vuole ridimensionare il numero delle vittime in un’ottica che sfiora il negazionismo.
Per mesi, la famiglia Sánchez aspettò un segno da afferrare per costruirci un po’ di speranza. Il cane Adam smise di abbaiare dalla notte del sequestro, degli equivoci personaggi si presentarono da mamma Cecilia consigliandole di tenere le luci accese di notte perché «Miguel stava per tornare». Una perversa crudeltà combinata con l’orrore. Poi, con il ritorno della democrazia, la speranza svanì perché il maratoneta desaparecido non ritrovò mai i suoi chilometri, i suoi allenamenti, le sue gare, minuziosamente raccontate in un diario che si intitolava Sueños de un campeón, sogni di un campione, una cronaca in apnea senza punteggiatura di quel suo vivere e correre tutto di un fiato.
L’inchiesta giornalistica
Ci vollero anni perché il ricordo di Miguel diventasse pubblico. Un giornalista argentino, Ariel Scher, mise insieme qualche sussurro e chiese al suo giovane collega Victor Pochat di raggiungere l’abitazione dei Sánchez per avere notizie su quel ragazzo, fino a quel momento considerato il primo e l’unico sportivo tesserato desaparecido prima che si scoprissero molti altri casi.
La storia comparve così sul quotidiano “El Clarín”. E poi fece il giro del mondo e arrivò anche in Italia, dove nel 2000 prese il via il percorso della Corsa di Miguel, all’inizio una timida testimonianza di un gruppo di podisti romani, poi un’onda di diecimila persone che anche domenica 19 gennaio arriverà allo stadio Olimpico di Roma per dare voce e gambe alla poesia scritta pochi giorni prima di scomparire, con quegli ultimi versi oggi di disarmante attualità: «Per te atleta, che traversasti paesini e città con il tuo andare, per te atleta, che disprezzi la guerra e insegui la pace».
La Corsa di Miguel è stata in questi anni lo specchio delle diverse Argentine che si sono succedute nel nuovo millennio. All’inizio, a Buenos Aires, furono in pochi a prendere il testimone di questo omaggio nato per la prima volta in Italia: la paura si mangiava tutto nonostante fossero passati quasi vent’anni dall’ultimo respiro della dittatura.
Poi, con l’era del kirchnerismo, ecco una corsa al recupero della memoria. Quindi le frenate con la presidenza Macri, fino all’avvento di Milei, alla sua “motosega”, il simbolo di questa rottura di continuità che avrà pure portato un calo dell’inflazione ma con un impetuoso e doloroso aumento della povertà e una raffica di licenziamenti di massa.
Mischiata con una ripetuta politica di annacquamento di quell’era velenosa e sanguinosa sull’altare di una sorta di zero a zero della storia, in cui la distinzione fra vittime e carnefici si perde nel caos delle ragioni e degli estremismi contrapposti. La famosa teoria dei "due demoni", i desaparecidos come risposta alle violenze e al disordine degli anni prima del golpe, da ricomporre attraverso il pugno duro di un regime totalitario. All’insegna del “por algo será”, "qualcosa avrà fatto", l'alibi con cui venivano giustificati gli omicidi. Cioè: sì, d’accordo, è andata a finire così, però, insomma, dietro sicuramente ci sarà stata una ragione.
Diego e il peronismo
Nel caso di Miguel il “dietro” era una militanza nella Gioventù Peronista, se dovessimo tradurre in termini "europei" e poco argentini un movimento di sinistra sociale, probabilmente interrotta al momento del colpo di stato del 24 marzo 1976. O forse, questa è la tesi di un giornalista brasiliano, proprio la sua curiosità, le sue “interviste” con i compagni di gara che venivano da tutte le parti del mondo, il suo poetare ingenuo ma efficace, portò i servizi segreti brasiliani, anche lì c’era la dittatura, a trasmettere ai colleghi argentini un’informazione: «Quel ragazzo fa troppe domande».
Domande che andavano cancellate e ora sono sepolte da qualche parte senza che i parenti e gli amici possano avere una tomba per piangere e ricordare. Domande che finirono in fondo all’Atlantico. Un giorno di qualche anno fa pure Diego Maradona ne parlò in un’intervista: «Non voglio morire senza sapere la verità su Miguel e sugli altri 30mila desaparecidos». Non c’è riuscito.
Le prospettive nel paese di Milei
Adesso, inutile negarlo, l’Argentina di Miguel ha paura. Ha paura dell’oblio, ha paura che tanti pezzi di memoria siano distrutti come l’incredibile impegno che ha portato le abuelas, le nonne coraggio, a ritrovare 138 dei più di 500 bambini rubati alle loro famiglie di origine e diventati nel frattempo donne e uomini. Sono stati tagliati tutti i finanziamenti pubblici alla loro organizzazione e alle Madres di Plaza de Mayo.
C’è però una resistenza che non molla. E un piccolo grande simbolo di tutto questo è venuto ancora una volta sotto il segno di Miguel: l’intitolazione alla sua memoria della scuola superiore del centro di alto rendimento sportivo di Buenos Aires, il Cenard. Una scelta, quella del nome, legittimata dal consiglio comunale della capitale argentina, ma prima di tutto votata a larga maggioranza dagli stessi studenti. Per loro, evidentemente, la memoria non si può cancellare.
La preside della scuola, Romina Banchik, sta arrivando a Roma. Domenica correrà anche lei per Miguel.
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