La tregua di Primo Levi è un gran memoir vitalistico, una fuga dalla morte, un pellegrinaggio, via dai i demòni dello sterminio mai davvero superati – ognuno per se stesso e il diavolo prende l’ultimo, recita il proverbio – ma pieno di voglia di vita: spostamenti, sogni, teatro (pièce di avanspettacolo su palchi scalcinati), cibo: leggendolo vien voglia di mangiare gli spaghetti al prezzemolo stracotti e pazzamente zuccherati, preparati dagli ebrei ungheresi. Si svolge in buona parte nei territori che in questi giorni sono topografia di guerra.

La fila di stremati reduci di Auschwitz arriva dalla Polonia a Odessa, attraversa l’Ucraina all’andata e al ritorno, si ferma per mesi in un campo di smistamento a Staryja Doroghi, in Bielorussia. La tregua dice molto della cultura dell’Europa orientale e di quella russa.

Guerra è sempre

Foto AP/Vadim Ghirda

Uno dei protagonisti è un mercante ebreo di Salonicco, Mordo Nahum, che per un periodo prende sotto la sua protezione Levi. Nahum gela l’autore immediatamente, con una battuta che rimane. «La guerra è finita», dice Levi. «Guerra è sempre», risponde Nahum. 

«Guerra è sempre», anche se in Europa per decenni ci si è illusi che non fosse più. I conflitti che hanno bordeggiato il subcontinente erano percepiti come periferici, sia che lo fossero davvero, come le guerre nel vicino oriente, sia che non lo fossero affatto, come il conflitto nella ex Jugoslavia.

Ci sono state spinte separatiste, movimenti terroristici nazionali e internazionali. Ci sono stati 40 anni in cui il pacifismo è diventato mainstream, ma attenzione: sotto l’ombra della Guerra fredda, e sotto la spinta dì una cultura americana che – saggezza preterintenzionale - non ha mai veramente capito e appoggiato il disastro del Vietnam. Il pacifismo occidentale è cresciuto in un cono d’ombra bellico.

Poi la caduta dell’Urss, la “fine della storia” e l’idea che il mondo si sarebbe sciolto in un abbraccio di liberi commerci ed Erasmus. Idea eurocentrica, egocentrica, ma soprattutto sbagliata. Lo si è visto subito dopo la caduta del muro di Berlino, con l’esplodere di nazionalismi e di conflitti.

E con l’aggressione di Putin all’Ucraina partecipiamo a un terribile ritorno della storia, un ritorno della guerra. Un archetipo che ci ha svolazzato intorno tipo corvo, o si appollaiava sulla testiera del letto, nel sonno. Come tutti gli archetipi, costantemente presente.

Gli archetipi sono «universali fantastici» (Vico), modelli che hanno la proprietà magico-animistico-virale di polarizzare l’immaginazione intorno a figure e sequenze narrative esemplari. «Cose che non furono mai ma sono sempre» (Ovidio). Non smettono di agire, non si fermano, che lo vogliamo o no. Dagli archetipi si può essere, solo, posseduti.

Ares è al lavoro

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Vedi alla voce Ares/Marte, un dio poco strutturato, poco rappresentato – pochissimi i templi a lui dedicati – che in origine pare non avesse nemmeno una figura, era l’evidenza cinetica della furia in combattimento. Epiteti latini: caecus, furibundus, ferus (bestiale), nimius (eccessivo), insanus, sanguineus, sceleratus, rapidus, subitus (improvviso), atrox, calidus (ardente), lascivus (sfrenato, osceno), confusus, deprensus (colto in flagrante).

Ares è tecnicamente un imbecille. Nell’Iliade dovrebbe combattere con gli Achei ma si schiera con i Troiani a fianco di Ettore. Fa strage. Riesce a farsi ferire dall’acheo Diomede, lancia un urlo come diecimila uomini.

Torna da Zeus che gli dice: «Non starmi a piangere, banderuola. Tu sei il più odioso dei numi». Lo fa risanare solo perché è il figlio che Era ha auto generato. Aggiunge: «Se tu fossi la stirpe di un altro dio, Distruttore, da molto tempo saresti più in basso nei figli del cielo».

L’Iliade è uno straordinario libro di psicologia: ogni personaggio è un moto d’animo di un unico, grande, essere. Ares è la furia idiota. In ogni massacro terreno troviamo al lavoro lui.

La sua biga ha due cavalli: Φόβος (terrore immediato) e Δεῖμος (terrore reverenziale). Traduciamo in inglese: Shock and Awe, come il libro di dottrina militare di Harlan K. Ullman e James P. Wade del 1996.

Una dottrina riconosciuta in vari fatti di guerra, e applicata su vari fronti, non ultimo il bombardamento alleato su Baghdad nel 2003. Ares è al lavoro quando l’inumano della guerra è al suo culmine, quando il sangue dei combattenti si fa terra.

Come nel fango impastato di resti umani a Verdun, come nel territorio del Vietnam strinato dalle bombe daisy cutter “falcia margherite” usate per creare piste di atterraggio per gli elicotteri, o dai 77 milioni di litri di Agente orange che hanno distrutto un terzo delle foreste vietnamite.

Opera di Marte

Racconta Hillman (Un disperato amore per la guerra, classico Adelphi): «La terra come rappresentazione di Marte: questa idea era chiara per Machiavelli, il quale raccomanda al principe condottiero di “imparare la natura de’ siti, e conoscere come surgono e’ monti, come imboccano le valle, come iacciono e’ piani, et intendere la natura de’ fiumi e de’ paduli”».

Anche la guerra come stupro è opera di Marte: sempre Hillman racconta dello stupro di Nanchino del 1937/1938: «In meno di sei settimane di occupazione, le truppe nipponiche uccisero centinaia di migliaia di cinesi. Donne di tutte le età furono ammassate e stuprate. Un imprenditore tedesco che viveva in Cina e che cercò di intervenire come poteva, scrisse: “Ci furono bambine di meno di otto anni e donne di oltre settant’anni violentate e poi picchiate a sangue con brutalità indicibile. Trovammo cadaveri di donne sopra cocci di bottiglie di birra e altri impalati su polloni di bambù. Vidi le vittime, con alcune di esse parlai poco prima che spirassero”».

Guerra è sempre, e Ares è ancora strutturalmente in carica: nei bombardamenti russi su obiettivi civili, nei “danni collaterali” -mirabile lenitivo verbale - di qualsiasi bombardamento chirurgico. Nell’imperscrutabile senso dell’espressione “fuoco amico”. È Ares “confuso”, Ares “colto in flagrante”.

Esiste una guerra giusta?

Foto AP/Vadim Ghirda

La dea della tattica militare è Atena, e non a caso odia Ares. Atena è  combattimento ordinato, intelligente, strategia di battaglia. Detta ᾿Εργάνη, “la industre”. Figlia di Zeus, generata dal cervello del padre, cura anche l’amministrazione della giustizia. Motivo razionalistico ateniese, che è transitato nella cultura occidentale attraverso mille percorsi.

Può esistere una guerra giusta? Per san Tommaso, che reinterpreta Aristotele e la dottrina cristiana nel modo più ampio, la guerra è giusta quando è sostenuta da un’autorità riconosciuta ed è combattuta per una giusta causa e con una giusta intenzione.

Per gli sfrenati neo-con prima e teo-con poi il tema della “guerra giusta” è stato motivo di riflessione teorica alta e di propaganda bassa, ed è finito nel discorso del “nation building”, flop clamoroso in Afghanistan, dell’“esportare la democrazia”, flop clamoroso ovunque, si è incarnato nell’operazione “Infinite Justice” del 2001, poi spogliata dal messianesimo e ribattezzata un po’ più laicamente “enduring freedom”.

L’idea di Putin oggi

Illustrazione Pixabay

Per l’Urss, ai tempi, si trattava di “richiesta di auto fraterno” da parte di Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia. Per Putin si tratta di “denazificare” l’Ucraina, e siamo allo spolverino propagandistico esibito, ma proprio per questo rivelativo di strutture sempre presenti: la ricerca strumentale della “giusta” causa e della “giusta” intenzione. Al servizio della guerra.

Qui siamo già dalle parti dell’altro universale fantastico o archetipo della guerra: Ermes/Mercurio. Messaggero degli dei. Scaltro, veloce, imbroglione, nascosto (“ermetico”) e dissimulatore.

«Apportatore di sogni, osservatore notturno, ladro ai cancelli», secondo gli Inni Omerici. Psicopompo, ovvero accompagnatore delle anime nell’oltretomba. Ermes è all’opera in tutte le operazioni segrete: i blitz notturni di Giulio Cesare alla conquista della Gallia Transalpina, l’attacco a sorpresa di Napoleone ad Austerlitz, la Beffa di Buccari del 1918, irrilevante dal punto di vista concreto, ma magnifica come operazione ermetica.

Ermes è naturalmente patrono di tutte le operazioni di intelligence, delle macchine Enigma e di ogni “Imitation game”, del jamming contro missili e aerei. È un oggetto pienamente ermetico il ricognitore Lockheed SR-71 Blackbird, costruito dai Usa comprando titanio dalla Russia sotto falso nome, per volare più in alto di tutti – 25mila metri - e più veloce di tutti – mach 3.2 – senza un’arma a bordo, solo macchine fotografiche. In servizio tra il 1966 e il 1991. Mai abbattuto.

Fa parte dell’universale dell’ermetismo anche, naturalmente, la cyberwar che può fare anche molto male, oltre a fare titoli sui giornali in versione pop, con le imprese di Anonymous che blocca i siti di informazione russa, per la gioia dei giornalisti eticamente avvertiti, e per il disappunto di quelli che vorrebbero avere accesso alle fonti dei nemici per farsi un’idea più completa. 

Tutto questo fa parte dell’universale fantastico della guerra. La guerra (sempre Hillman) è autonoma e autoreplicante. Ha una forza di attrazione tale che non ce ne si può discostare: si subisce.

Attivamente o oppositivamente. Impregna il linguaggio fino al paradosso: “battaglie per i diritti civili”, “battaglie pacifiste”. Il mondo social da quando è partita l’invasione russa risente del conflitto coi suoi soliti schemi: polarizzazione, velocizzazione della comunicazione, ansia, odi verbali, inutili meme pacifisti, inutili deliri militaristi.

Gli universali pacifisti non sono potenti

(Manifestazione per la pace a Berlino. Nella foto, l'attivista per il clima Luisa Neubauer. Foto AP)

Anche il mondo social si rivela come appartenente a quell’archetipo, ma non lo sa riconoscere o lo riconosce solo come “sublime”, che è pericolo ma mediato. Come Jane Fonda, che solo dopo molto tempo si è accorta dell’errore nel farsi fotografare col mitra ad Hanoi.

È terribilmente triste dirlo, ma gli universali fantastici pacifisti non sono così potenti, o almeno hanno una carica simbolica contraddittoria: il culto greco di Irene, deificazione della pace, richiedeva enormi sacrifici cruenti.

A Roma l’Ara Pacis, voluta da Augusto al ritorno dalle campagne di Spagna e di Gallia, era stata eretta fuori città, nel Campo Marzio, il campo di Marte. Il concetto di pace evangelica ha innanzitutto una tonalità sapienziale e trascendente, prima che politica.

È bello pensare al sogno di Erasmo da Rotterdam: «L’uomo è stato creato nudo, con una carne morbida e una pelle liscia: nulla nelle sue membra che possa essere destinato al combattimento e all’esercizio della violenza». Ma la tregua forse è solo un battere di ciglia sotto il “guerra è sempre”.

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