Una foto, uno scandalo e il ritorno di un vecchio immaginario: cosa ci dice la copertina di Sabrina Carpenter sulle donne, il desiderio e la cultura pop
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
Col senno di poi, forse è strano che ci abbia fatto tutta questa impressione. Si parla comunque di Sabrina Carpenter. È diventata virale finendo i suoi concerti con un doppio senso nuovo tutte le sere. Nelle performance del tour di Short n Sweet, l’album per cui ha vinto due Grammy, mimava posizioni sessuali ogni volta diverse. Un suo video girato in una chiesa di Brooklyn ha scandalizzato così tanto da aver portato alla rimozione del sacerdote responsabile di aver permesso le riprese. L’ex star del mondo Disney nell’ultimo anno e mezzo si è costruita un personaggio in cui la sessualità – vissuta in maniera disinibita e divertita – era centrale.
Eppure la copertina del suo prossimo album, una foto in cui guarda verso lo spettatore, inginocchiata a quattro zampe, mentre un uomo fuori dall’inquadratura la afferra per i capelli, è risultata scioccante e divisiva.
Man’s Best Friend
C’è stata una reazione di repulsione, anche da parte di fan che presumibilmente apprezzano tutta la sua estetica da coquette. Difficile misurare in che misura, sono tantissime anche le voci che si sono levate in difesa dell’immagine (su The Cut Olivia Craighead ha commentato: «Nessuno dica a queste persone che cosa faceva Madonna negli anni Novanta. Se una foto un po’ sottomessa li manda in bestia, chissà cosa succederebbe se mettessero gli occhi su Sex»).
Ma tante altre hanno accusato la cantante di sottostare al male gaze, o addirittura di normalizzare la violenza. «Non è un’immagine fine o sex positive, è solo porno soft che asseconda lo sguardo maschile», ha scritto Arwa Mahdawi sul Guardian, citando anche il duro comunicato di Glasgow Women’s Aid, associazione scozzese che aiuta vittime di violenza domestica. E facendo l’inquietante associazione mentale tra i capelli tirati di Carpenter nella foto e la testimonianza di Cassie Ventura al processo contro Sean “Diddy” Combs, in cui la donna ha raccontato di essere stata trascinata per i capelli in una stanza dal rapper.
Su The Free Press, Suzy Weiss ha raccontato che la parte più giovane della sua redazione era decisamente divisa: è una parodia? È sex positivity? Siamo tutti solo turbati dal fatto che la ragazzina dolce che compariva su Disney Channel ora sia una 26enne senza particolari freni inibitori? Su quest’ultimo punto, Weiss traccia un parallelismo con Miley Cyrus, anche lei ex pop star bambina che da giovane adulta è stata poi spesso scandalosa e che di recente ha detto «ogni volta che vedo Sabrina Carpenter vorrei chiederle se sta bene».
Di cosa si tratta quindi? Della ribellione di una ex brava bambina? Di una grande presa in giro? Di uno stratagemma per far parlare di sé? Da parte sua Carpenter ha reagito con grande nonchalance alle polemiche, pubblicando una copertina alternativa decisamente più safe for work, che su Instagram ha definito «approvata da Dio».
Oltre lo sconcerto
Senza cadere nella trappola di cercare di capire se sia l’arte a influenzare la società o viceversa, senza dover arrivare per forza a un consenso su una foto che a ciascuno dirà qualcosa di diverso, forse comunque c’è un immaginario dietro quell’immagine che ci dice qualcosa del nostro tempo.
Il filtro usato è volutamente retrò: tanta dell’estetica di Carpenter rimanda alle pin up. Ma l’influenza più immediatamente riconoscibile e più duramente criticata, è quella della pornografia.
Un saggio recente della giornalista americana Sophie Gilbert, Girl on Girl, si è dato l’obiettivo ambizioso di rintracciare nella cultura pop dell’inizio degli anni Novanta e dei primi anni Duemila le radici di ciò che ha fatto sì che «una generazione di donne si accanisse su sé stessa». Gilbert passa in rassegna tutta la cultura pop di quel periodo. C’è il disgusto esplicito nei confronti dei corpi delle donne, delle star sessualizzate fin da giovanissime solo per poi additare la loro sessualità come qualcosa di vergognoso. Ci sono le parole violente usate per indicare i corpi non conformi, l’ossessione per le diete. E, soprattutto, c’è un predominio dell’immaginario pornografico, anche violento, spesso non liberato, nella musica e nel cinema.
Tante delle cose che rilegge Gilbert nel suo libro oggi suonano del tutto fuori dal tempo. Eppure piano piano sembra di assistere ai segni di un riflusso, di un ritorno di certi modelli e comportamenti. Di un immaginario che si ripete. Il backlash contro il Me Too è il suo segnale politico più evidente. Il ritorno della magrezza e la fine della body positivity – sepolta ormai definitivamente dall’Ozempic – sono il canarino nella miniera di una cultura pop che torna indietro.
Desiderare
Forse la body positivity non è mai stata reale, e forse nel dirle addio c’è del sollievo per la fine dell’ipocrisia. Eppure ci mancherà, quando non ci sarà più. Anche se con ogni probabilità sulle nostre tv non torneranno reality show crudeli, gli scaffali non si riempiranno di libri di diete che insultano le persone grasse in maniera virulenta. Ci mancherà un argine a una cultura che vuole che le donne rimpiccioliscano. In tutti i sensi. Che abbiano bisogno di meno. Che desiderino meno.
In The Crane Wife, un bellissimo pezzo scritto per The Paris Review, la scrittrice CJ Hauser racconta della rottura del suo fidanzamento e di un’escursione naturalistica per studiare le gru in Texas. A un certo punto descrive una storia del folklore giapponese: «Nel racconto, c’è una gru che inganna un uomo, facendogli credere di essere una donna per poterlo sposare. Lei lo ama, ma sa che lui non la amerà se è una gru, così passa ogni notte a strapparsi tutte le piume con il becco. Spera che lui non veda ciò che lei è in realtà: un uccello di cui bisogna prendersi cura, un uccello capace di volare, una creatura con i suoi bisogni. Ogni mattina la gruista è esausta, ma è di nuovo una donna. Continuare a diventare una donna è un lavoro di cancellazione di sé stessa. Non dorme mai. Si strappa tutte le piume, una per una».
Rimpicciolisci, cancellati, sottomettiti. Una delle difese più frequenti della cover di Man’s Best Friend è sostanzialmente riassumibile con la frase “let girls be horny on main”, tradotto: lasciate che le ragazze siano arrapate in pubblico. Senza pudore, senza vergogna. Eppure forse sarebbe bello poter immaginare un mondo in cui i messaggi su cosa significa essere donne sono diversi. Immaginare anche come sarebbe diverso il desiderio femminile. Il volto del femminismo dei blog americani, Jessica Valenti, nel suo memoir di quasi dieci anni fa, Sex Object, si chiedeva «chi sarei stata se fossi vissuta in un mondo che non mi odiava».
Magari qualcuno penserà che è esagerato dire che il mondo odia le donne, e magari è poco politicamente corretto fare la polizia dei desideri, ma nessuno e nessuna vive astratto dalla società. Come vediamo noi stessi, come siamo in grado di immaginarci, dipende necessariamente da quello che vediamo intorno a noi e risponde alle aspettative dello sguardo degli altri. È troppo vedere la cover dell’album e pensare che vorremmo immaginare di meglio? Qualcosa di diverso, che non torni sempre schemi triti e ritriti?
Per ora le Sabrina Carpenter di questo mondo non possono sapere come sarebbe crescere davvero liberate da questi schemi. Che continuano a piacere, far discutere, vendere. Meglio quindi stare al gioco, provocare e monetizzare: non possiamo biasimarle.
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