Sono stata a San Diego, durante i giorni del Comic-Con, e non sono andata al Comic-Con. A Roma si dice «stai a rosicà» o «ci sto rosicando» quando qualcosa non va come desideri. Nonostante la mia “romanità” (sono nata e vivo a Roma), io molto difficilmente rosico. È una cosa, un atteggiamento, che mi appartiene poco. E forse proprio per questo motivo non amo la competizione, non partecipo a gare o concorsi, perché non ho quella spinta. Non ho quel sentimento di rivalsa o di bisogno vittoria. Non mi importa di provare quel tipo di adrenalina. Ho sempre pensato che siamo tutti dei numeri. Se poi siamo un otto o un due, poco importa.

Una vittoria inaspettata 

Nonostante questo mi sono ritrovata a vincere un premio. Ho vinto il premio Nuovi Talenti al Romics (Festival internazionale del fumetto a Roma). È stato emozionate, ogni tanto lo riguardo e mi fa sentire piuttosto orgogliosa del mio percorso. Il premio Nuovi Talenti l’ho vinto grazie al mio fumetto – o graphic novel – Prima di tutto tocca nascere pubblicato con Feltrinelli Comics. 

A giugno ricevo una chiamata: «Ciao Michela, siamo del Romics. Con il premio Nuovi Talenti hai vinto un viaggio a San Diego. Sfortunatamente non possiamo farti avere i biglietti per il Comic-Con perché sono finiti da due anni. Vuoi partire lo stesso?». 

Ecco, io non riesco a immaginare una persona capace di rifiutare una roba del genere: «No, guarda siccome sono una fumettista non posso entrare dentro San Diego se non ho anche il biglietto del Comic-Con». E poi la cosa buffa è che i biglietti sono finiti da due anni e io due anni fa non avevo neanche finito di disegnare il libro con cui ho vinto il premio. Io due anni fa facevo la grafica (ok, ogni tanto faccio ancora la grafica ma principalmente ora come ora mi occupo di fumetti). In ogni caso io due anni fa non mi sarei mai lontanamente immaginata di finire a San Diego, gratis. Viaggio e alloggio pagato, e perché? Perché faccio i fumetti.

Essere felici 

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Ho 31 anni e ho iniziato a lavorare in agenzie a 23 anni, non ho più smesso. Il grafico non è “l’artista di turno”, al grafico non regalano nulla. Se ti regalano qualcosa è per chiederti un favore, sempre. Mi sono ritrovata con un premio – prestigioso – e un viaggio, in California.

Come bagaglio a mano, una pesantissima sindrome dell’impostore. Ci ho messo un po’ a capire che tutto questo me lo meritavo, che potevo essere felice e basta. Essere felice e basta è una delle cose più difficili in assoluto. Ci vuole poco a essere depressi e smorzare con l’autoironia, che piace a tutti. Sei depresso ma simpatico, quindi è ok. Poi a 30 anni ti viene l’ulcera e capisci che è ora di prendere la strada più difficile.

Quindi ho fatto un grande respiro. Decidendo di essere felice, e basta. È una decisione? Sì, lo è. Scoprire che la felicità è una roba che decidi ti cambia davvero la vita. E ve lo dice una che è un mix di ansia e attacchi di panico.

Per farmi le 14 ore di volo per San Diego avevo portato di tutto. Valeriana, cinque libri e due lavori da finire. Molti dicono «basta respirare», la verità è che è un percorso lungo. Decidere davvero di goderti la tua vita significa uccidere a mani nude la parte di te distruttiva. Significa non avere paura di un attacco di panico, quindi un momento in cui vai fuori di testa e sei convito di morire. Come si fa a non avere paura di questo?

Con il coraggio. Ecco, a un certo punto ho pensato di essere una persona estremamente coraggiosa, quindi di meritarmi sto cavolo di premio.

Il viaggio è durato dal 20 al 27 luglio. Sono stata a San Diego, poi a due passi da Tijuana e infine a Los Angeles. Le strade erano tutte enormi e tutto lontano. A quanto ne so Los Angeles è enorme, impossibile da visitare tutta in un paio di giorni. Lo stesso vale per San Diego: per muoversi è obbligatoria la macchina.

Homeless e indifferenza 

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C’è una cosa che però dicono tutti e che è bene ribadire, perché rimane davvero impressa nella memoria. San Diego è piena di homeless. Ma talmente tanto che sembra sia una città effettivamente abitata solo da senzatetto. Durante la settimana del Comic-Con ho visto gente travestita da Thor o Spiderman fare lo slalom tra le tende e le coperte.

Vivono tutti dentro delle tende, accampati sui marciapiedi. Inizialmente ero piuttosto tesa e spaventata, la stessa tensione che potrei provare camminando di notte a stazione Termini a Roma. Ma là, quella situazione non riguardava solo un quartiere, solo un luogo, solo un palazzo. Riguardava tutta la città, tranne, ovviamente, i quartieri ricchissimi.

Si sa com’è la situazione con il sistema sanitario, in America. Ma quello che mi ha sconvolta è stato che queste persone – esseri umani, con una vita, una dignità, dei pensieri e emozioni – erano totalmente invisibili. Invisibili nel senso che nessuno ci faceva più caso. Come può, una situazione così evidente, diventare invisibile? Se fumi in un parco ti fanno una multa di mille dollari. Ma se ci sono 20 tende sul marciapiede e persone che stanno visibilmente male allora è tutto ok.

Lì la vita costa tanto, tutto costa tanto e tutti si fanno gli affari loro. Ho chiesto a un autista Uber come mai, secondo lui, ci sono così tanti homeless e lui ha risposto: «Perché loro voglio vivere così». Questa è per antonomasia la risposta più ipocrita del mondo, perché pensare «beh, lo ha scelto lui» è un modo facile per levarsi di dosso tutte le responsabilità. Tutte le persone che hai visto dormire per strada, mentre tornavi a casa, non c’entrano nulla con te. Perché «è una loro scelta».

A San Diego ci sono molte blatte. Quelle grosse, brutte e marroni, classiche dei film. Puoi trovare le blatte anche in hotel buoni a tre o quattro stelle. Allora tu la schiacci ed è come se non fosse successo nulla, e continui a dormire sereno.

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