Chiama Beppe e mi fa: «Vorrei un racconto da te».

«Un articolo, vuoi dire?» gli chiedo (ma nel frattempo il racconto l’ho scritto, eccolo, contiene qualcosa che nessun italiano ammette mai, vi racconterò quella volta che non mi si è drizzato l’uccello).

«No, no, un racconto. Stiamo per uscire con un nuovo supplemento del giornale. Lanciamo il primo numero al Salone del libro».

«Bel colpo».

«Avrà molta visibilità. Quindi dacci dentro».

Panico. Marasma. Ansia da prestazione a mille.

La telefonata con Beppe prosegue commentando i candidati al premio Strega di quest’anno. «Ce ne sono solo due o tre di impianto veramente contemporaneo», dice lui. «A me interessa quello, nei romanzi, che siano davvero contemporanei».

Allora racconto qualcosa di contemporaneo, così lo faccio contento. Che cos’è contemporaneo? Questa la so. Contemporaneo è giocare a carte scoperte. Non ci va più di raccontarci frottole, ormai lo sappiamo cos’è che fa muovere le cose e le persone, quali sono i meccanismi, gli interessi, è inutile nascondersi dietro un dito, eccetera. I nostri padri e madri dovevano fingere, lo facevano per tenere in piedi la baracca, i rapporti sociali funzionavano così, e infatti guarda che schifezza ci hanno consegnato, un mondo incrostato di ipocrisie. Noi non ci stiamo più, a fare finta. Perciò racconterò apertamente che questa roba che state leggendo serve a lanciare il nuovo supplemento, lo so io e lo sapete anche voi. Che palle, però. Mica vorrò fare letteratura sulla letteratura, scrittura che parla di sé stessa, metacomunicazione. Per carità. Qui ci vuole una storia. Ce l’ho, una storia?

Il segreto necessario

Questa cosa di giocare a carte scoperte c’entra con una storia che mi ronza in testa da settimane. (Poi vedrete che alla fine ne ho scelta un’altra, quella dell’uccello che non mi si rizza, ma intanto sentite questa). C’è una persona, non so ancora se uomo o donna, che sente il bisogno di avere un segreto. Ma non dev’essere un segreto del suo passato. Dev’essere un segreto attuale, un segreto attivo. Qualcosa che fa di nascosto. Come mai ne ha bisogno? Perché la società si fa sempre più “stretta”, come diceva Leopardi (già all’epoca; figurarsi oggi, con i social, gli smartphone, eccetera), tutti stanno a stretto contatto con tutti, tutti sanno tutto di tutti, e il protagonista del mio racconto (facciamo che è un uomo, mi riesce più facile) sente che quest’epoca lo consuma, lo sgretola; non gli lascia nessuna zona d’ombra, un guscio solo per lui, dove possa dire: «Ecco, questo sono io. Non lo sa nessuno che io sono così, e che di nascosto faccio questo; esiste ancora un posto, nella mia vita, dove io sono io e non sono in balìa degli altri; quest’epoca non si è mangiata tutto quanto».

Però non dev’essere un segreto perverso, droga, omicidi seriali, sadomaso. Troppo banale. Allora che fa? Ci pensa su (non ve ne importa una cippa di questa storia, lo so, ho commesso l’errore di dirvi che me la sono inventata, e voi volete sapere la storia vera di quella volta che non mi si è drizzato l’uccello; dopo ve la racconto, ma intanto voglio dirvi da dove ci sono arrivato), si guarda intorno, e quello che lo colpisce sono le persone sole. Proprio come Eleanor Rigby, la canzone dei Beatles.

Lui, Carlo – anzi, Sergio, no: Damiano – Damiano ha cinquantacinque anni, una moglie che adora, due figli ormai adulti, e quando gli nasce la prima nipotina si sente traboccare di felicità. Non è giusto. Perché la felicità è così mal distribuita? Perché a chi tutto e a chi niente? Un giorno incontra una sua vecchia compagna di scuola, delle elementari, Dorina – anzi, Rosanna, no: Sandra – Sandra non la vedeva da una vita, praticamente mezzo secolo. Dimostra più anni di lui, è una brava donna ma si veste male, ha il cappotto sdrucito, non cura i capelli, Damiano la saluta, ci parla e gli viene il magone.

Amore per beneficenza

Prendono un caffè, chiacchierano; Sandra vive sola, ha sempre vissuto sola, prima con la madre e, dopo che è morta, ancora più sola. Damiano la sta ad ascoltare.

«Nessuno che mi aiuti, è dura», gli dice Sandra, e gli fa l’esempio di una mensola in cucina che si è schiodata da un lato ed è da un anno che penzola dal muro.

«Te la vengo a rimontare io», dice Damiano, e ci va davvero, con il trapano elettrico, gliela rimonta; la settimana dopo ritorna per rimetterle a posto il lampadario, è servizievole, si sente utile, continua a farsi vivo anche quando non ci sono più mensole e lampade da aggiustare, la bacia, vanno a letto, lui non ha nessun desiderio per lei, non la trova eccitante, ma riesce a farla contenta lo stesso. Damiano a letto con Sandra non prova piacere, non gli importa, non era questo il suo scopo, lui voleva vivere un segreto.

Sandra lo sa che Damiano ha una moglie, dei figli e una nipotina, non pretende più di quello che lui le dà, si vedono due o tre volte al mese, non sbuffate che prima o poi il mio uccello moscio arriva.

Lui non si sente in colpa verso la sua famiglia, è stato un brav’uomo, ha cresciuto due figli, dopo ventisette anni di matrimonio fa ancora l’amore con sua moglie, con passione; la sua relazione con Sandra non toglie niente a nessuno, non lo rende un padre peggiore, né un nonno distratto, né un marito meno infervorato. Sta solo dando un po’ di felicità a una persona sfortunata, una che era partita accanto a lui, sugli stessi blocchi di partenza (“sui blocchi di partenza della vita”, ma mi faccio tagliare una mano piuttosto che scrivere una frase così), una compagna di banco delle elementari. Ho quasi finito. Una fine ci vuole. Un pomeriggio, dopo che ha fatto l’amore con Sandra, disteso al suo fianco, Damiano si lascia sfuggire una parola di troppo, si confida, viene fuori che all’inizio lui l’ha corteggiata per pura benevolenza, «diciamo pure per beneficenza», dice Damiano, pensando di fare una battuta spiritosa, perché per lui è evidente che dopo tutti questi mesi si è affezionato.

«Insomma, ti ho fatto pena», dice Sandra, si alza a sedere sul letto e lo strozza per scherzo, in quell’attimo le cade addosso tutta la sua disperazione, stringe sempre più forte, preme con le braccia dritte, Damiano boccheggia, rantola, la picchia per staccarle le mani dal collo, con uno strattone la fa cadere dal letto, Sandra si taglia, perde sangue dalla testa, corrono all’ospedale, punti di sutura, ferite, graffi, ematomi, c’è un’indagine, una denuncia d’ufficio, la notizia esce sui giornali, tutti vengono a saperlo, anche la sua famiglia, i figli, la moglie.

E il segreto, il guscio, l’ombra? Che fine hanno fatto? Damiano ha ottenuto esattamente il contrario di ciò che cercava? È un finale in cui i fatti rovesciano i progetti del protagonista, come deve succedere in ogni racconto che si rispetti? No, perché Damiano non racconta la verità, non si giustifica. Accetta che tutti pensino che il suo è stato un banale adulterio, e che è un uomo violento; tace, pur di preservare quel che resta del suo segreto, la sua parte più vera.

Senso di colpa a mille

Certo, questo darebbe solo il canovaccio. Andrebbe raccontato per bene, nei dettagli, e bisogna essere bravi soprattutto nel rendere credibile la reazione violenta di Sandra. Ma resterebbe comunque un racconto astratto, mi sa, troppo motivato, e piuttosto sessista. Non va bene. Sto affossando questo nuovo supplemento. Senso di colpa a mille. Devo fare qualcosa.

I maschi e la verità

Tempo fa mi ha telefonato una giornalista. Mi ha detto che stava facendo un’inchiesta sul desiderio maschile, per una rivista femminile. Mi ha fatto un sacco di domandine, piuttosto innocue. Ma stava facendo ammuina. Le domandine servivano solo a mimetizzare lì in mezzo l’unica cosa che le interessava: se mi era mai capitato, e se l’avevo mai detto.

E infatti l’articolo che venne pubblicato parlava solo di quello: «Perché, su questo argomento, i maschi italiani non dicono mai la verità?»

Io veramente la verità gliel’avevo detta, avevo risposto che sì, mi era capitato, e infatti, di tutte le mie rispostine, quella era l’unica che poi lei aveva riportato nel suo articolo, in due righe molto generiche. La giornalista aveva intervistato anche uno scrittore napoletano, domandandogli se gli era capitato; lo scrittore napoletano le aveva risposto che a lui, figuriamoci, mai.

Pastasciutta al cemento

All’università c’era questa ragazza, la chiamerò Genny, frequentavamo insieme i corsi di letteratura, ci scambiavamo gli appunti.

Genny era magra, alta, simpatica. Mi riempiva di lusinghe, aveva un modo tutto suo per dimostrarmi il suo apprezzamento. Mi faceva dei complimenti per le parole che usavo. Mi ricordo che una volta, camminando per la strada, avevo detto «le péste» anziché «le impronte», e lei aveva fatto festa al mio modo di parlare: «le péste, le péste!», ripeteva con ammirazione, camminando in maniera accurata, come se mettesse i piedi dentro la parola «péste». Era uno dei suoi modi di corteggiarmi.

Certe volte mi citava dei versi di famose poetesse innamorate, che contenevano tante volte la parola “tu”, mi guardava piantandomi il pronome negli occhi.

Io non ero abituato, non ero mai stato corteggiato in vita mia. Non che la cosa mi mandasse in solluchero. Anzi, mi metteva a disagio.

Mi trovavo bene con lei, si ghignava parecchio insieme, c’era quell’entusiasmo dei giovani che fanno scoperte continue a ogni lezione universitaria e a ogni nuova lettura (entusiasmo giovanile che adesso non voglio mitizzare, perché non l’ho mai perduto: è l’entusiasmo che mi ha mandato in rovina, a me), ma con lei non avevo nessuna intenzione di ecc., e nemmeno di ecc.

Non mi sembrava di averla mai incoraggiata, ma si vedeva benissimo che cosa voleva da me, avrei dovuto essere più cauto. Non ero più un ragazzino, avevo ventiquattro anni, mi pare, quando Genny mi invitò a casa sua. Perché ho accettato? Perché non ho inventato una scusa?

Eppure me lo aveva detto chiaro: «I miei sono in vacanza, anche mio fratello è via. Vieni a cena da me?».

Mi cucinò una memorabile pastasciutta al formaggio, non l’ho mai dimenticata, rimase per metà incollata alla pentola, Genny dovette scalpellarla per servirla nei piatti.

Onestamente, a parte la pasta al cemento, non ricordo che cosa successe quella sera, ma ne ho come un residuo di mestizia (mia), per aver causato delusione (sua): a un certo punto mi sono alzato da tavola e ho detto che preferivo andare perché rischiavo di non trovare più mezzi, Genny abitava al Lido e i vaporetti notturni per rientrare a Venezia, all’epoca, erano rarissimi.

Spedizione notturna

Sono troppo riassuntivo, dovrei essere più completo, lavorare sui tessuti connettivi di questa storia, metterci qualcosa in mezzo, reinventare retrospettivamente. Ma non voglio raccontare balle. Preferisco essere lacunoso che bugiardo. E quindi dovete immaginarvi una serie di altre lezioni universitarie frequentate insieme, qualche tazza di tè nei locali (allora non era esplosa la moda dello spritz), qualche uscita insieme, al cinema. La verità è che la mia memoria scalpita, corre direttamente alla seconda serata che abbiamo passato da soli insieme. La memoria è così, tutto si cancella, restano in mente solo le cose che contano, le catastrofi.

Non ricordo più come, ma, dopo un anno di corteggiamento, una sera, a mezzanotte, il giovane Scarpa capitolò, ci siamo scambiati un bacio.

Bisogna sapere che abitavo ancora dai miei. L’anno dopo sarei andato a vivere fuori casa. Ma all’epoca non avevo un posto dove stare al chiuso in compagnia di una ragazza.

C’era una sola possibilità, quella sera: usare la casa in custodia dei nostri parenti ricchi. Vivevano in un’altra città, e ci avevano affidato il compito di dare un’occhiata ogni tanto alla loro seconda casa a Venezia, un appartamento poco distante dal nostro, giusto per assicurarsi che fosse tutto a posto («con i ladri che girano»). Io ero così cretino da non essermi procurato un duplicato delle loro chiavi, di nascosto dai miei genitori, per averle sempre con me. Quindi adesso, a mezzanotte passata, mi toccava per forza fare una spedizione a casa mia a recuperare le chiavi, mentre i miei genitori e mio fratello dormivano; poi scendere di nuovo in strada e andare nell’appartamento dei parenti ricchi.

Lo spiego a Genny, e lei ci sta. È da un anno che mi corteggia e che io mi tiro indietro, è sbalordita che io l’abbia baciata e che adesso le stia proponendo questa notte insieme.

L’angosciosa cucina

La casa dove sono cresciuto era un bugigattolo di cinquanta metri quadri. E io, invece di chiedere a Genny di aspettarmi giù in androne, la faccio salire in casa, a mezzanotte passata, sapendo benissimo che mio padre, mia madre e mio fratello sono lì che dormono. Apro la porta, facciamo giusto un metro di corridoio, svoltiamo a sinistra in cucina.

Vorrei potervela mostrare, la cucina. Una realizzazione terrena dell’idea platonica di angoscia.

E lì dentro, su una sedia compressa in una nicchia fra la porta a vetri smerigliati e la credenza, davanti a un tavolo dove c’è una vecchia radio, un ferro da stiro calcareo e qualche pignatta bruciacchiata, capovolta ad asciugare su un telo, mentre Genny siede sulle mie ginocchia, io le sussurro: «Oppure preferisci che ci mettiamo comodi qui?», e accenno pure alla possibilità di spogliarci.

Come ho fatto anche solo a concepire una cosa simile? I miei famigliari stavano dormendo a otto metri di distanza, dietro due antine di compensato e una porta di gomma a soffietto. Che cosa sarebbe successo, se avessero sentito i nostri sospiri accorati, fossero venuti a vedere e ci avessero trovati mezzi nudi, ingroppati nella luce giallastra della lampadina, fra le pentole annerite e il ferro da stiro, di fronte ai fornelli unti? Non riesco a immaginare niente di più abominevole.

Lei si guarda intorno, chiude per un attimo gli occhi e mi dice: «Meglio di no».

Mi alzo, apro la credenza e da un gancio arraffo le chiavi, usciamo in strada, siamo di nuovo in cammino, sto andando verso la casa dei miei parenti ricchi, mi conficco a grandi passi dentro la mia sconsideratezza, deciso ad andare fino in fondo al disastro.

Ma tu, povera Genny, non ne avevi avuto già abbastanza? Non ti aveva già rivelato tutto, quell’immersione nello squallore, con un mentecatto che ti propone di inaugurare il tuo amore in una cucinetta rancida, ammobiliata da impiallacciature in fòrmica anni Sessanta, fra le crepe dei pavimenti rappezzati e le pareti dipinte di beige?

Più saggio di me

Eccoci salire in silenzio la scaletta stretta di un palazzo veneziano, per raggiungere l’appartamento in cima, il mezzanino anticamente riservato alla servitù, ora arredato con pezzi di design. Infilo la chiave, la giro eseguendo un impalpabile pianissimo. Tutto è nero, tutto tace: è vero, da fuori, in strada, abbiamo visto le imposte chiuse, e di solito a Venezia i parenti ricchi ci vengono poche volte l’anno, e solo nei fine-settimana, ma per quanto ne so potrebbero essere di là a dormire. Le dico di stare ferma sul pianerottolo. Tendo l’orecchio, in silenzio, aspetto che gli occhi si abituino al buio; so dove guardare: se ci sono scarpe sparse sulla moquette in ingresso i parenti ricchi sono in casa e bisogna chiudere tutto e filarsela. Se non ci sono scarpe, via libera.

Via libera.

Entriamo. I soffitti bassi incombono, trattengo il respiro, non sono ancora sicuro al cento per cento. Mi spingo fino in camera, intuisco la sagoma del letto; niente rigonfiamenti, è perfettamente piatto. «Qui non c’è nessuno», dico, parlando finalmente a un volume di voce normale.

Impensabile usare il letto. Ci sediamo sul divano.

Ci spogliamo senza accendere le luci.

Da fuori filtra un riverbero di lampione.

Genny è magra, ha un bel fisico, il seno piccolo, le cosce lunghe. Che stranezza, vedere nuda un’amica, una compagna di università. Che cosa c’entra con me, questa sua nudità?

Accenno qualche bacetto, annaspo. Il mio uccello è più saggio di me. Rimane imperturbabile. Non ne vuole sapere. Genny cerca di stimolarlo, ma in mano e in bocca le resta questa vescichetta floscia.

Occorreva, dico io (lo dico adesso, trentacinque anni dopo) umiliarla così? Non glielo potevi dire prima, che non era il caso? Perché sei stato così vigliacco da delegare la verità al tuo organo genitale, invece di usare le parole?

Poi non mi ricordo cos’è successo, non so se ho cercato di darle piacere con le carezze, la lingua, le dita, Davvero non me lo ricordo.

La bontà e il piacere

Per finire, cari lettori e lettrici di questo primo numero di Finzioni, del supplemento letterario di Domani, cari visitatori e visitatrici del Salone del libro di Torino, ecco qui di seguito le domandine della giornalista della rivista femminile: «Volersi bene e darsi piacere non faranno mai pace? Saremo per sempre condannati a tenere separate benevolenza e passione? Ci sarà impossibile inventarci lì per lì almeno un surrogato d’amore a chi ce lo chiede? Per scambiarci vicendevolmente qualche soddisfazione dovremo per forza essere infervorati? E quando toccherà a noi, magari da vecchi, chi ci verrà in soccorso con una misericordiosa carezza, con un abbraccio sensuale? Fuori dall’esaltazione amorosa e dall’effervescenza erotica, l’umanità è condannata alla solitudine e allo sconforto? Rimarremo abbandonati alla nostra disperazione, per un malinteso senso di sincerità? Le buone intenzioni sono impotenti? Potranno mai coincidere, bontà d’animo e uccello duro?»

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