Difficile dire se, dovendo affrontare un artista come Sean Scully, convenga partire dalle sue opere o non invece dalle sue parole: il dubbio sorge aprendo il catalogo della mostra aperta fino al 9 ottobre al MAMbo di Bologna.

Il catalogo prende il via con un dialogo tra l’artista e il direttore del museo, Luciano Balbi, che ha anche curato la mostra. Scully s’impegna a rispondere analizzando ogni volta una sua opera: è un meccanismo che funziona a meraviglia grazie alla disponibilità dell’artista a scoprirsi generosamente senza lasciare zone d’ombra e grazie alla lucidità con la quale calibra il discorso tenendolo sempre in stretta relazione con le opere. L’inizio, per esempio, è folgorante. Balbi chiede a Scully quanto la sua infanzia in una famiglia senza fissa dimora nella Dublino dell’immediato dopoguerra (dove l’artista è nato nel 1945) abbia inciso sulla sua pittura. Per rispondere Scully ricorre a un dittico del 2000 presente in mostra, Two Windows Gray Diptych.

Le finestre

Già la distanza cronologica, quasi mezzo secolo, è indicativa di quanto sia stato profondo il segno lasciato da quell’esperienza di marginalità sociale vissuta da bambino. In quel dittico dipinto a fasce grigie e nere e grigie e brune, Scully ha inserito, come tanto volte lo si vede fare, due innesti per parte, quadri dentro il quadro. Lui le chiama “finestre” e ne spiega l’origine con le finestrelle minuscole degli ambienti in cui era costretto a vivere in quegli anni, «molto ristretti, come nella cella di un carcere». Per questo gli innesti assumono ai nostri occhi tanta forza, vere calamite visive verso un possibile oltre.

Ma Scully non si limita a condividere questo movente interiore da cui si origina la sua opera. Aggiunge anche che il dittico per lui è in stretta relazione con Giorgio Morandi, di cui è simbolicamente “ospite” in un museo come il MAMbo: tant’è che ha voluto esporre Two Windows Gray Diptych proprio nelle sale del primo piano dedicate al grande artista bolognese.

«Questi due quadri», spiega, «si basano sul tocco e su un colore debole – sono quasi spogliati del loro colore, e questo mi pone in una relazione quasi di fratellanza artistica con Morandi: anche lui utilizzava apposta un colore debole, per evidenziare la forza della pennellata su scala intima».

Il saggio su Morandi

Al grande artista bolognese Scully nel 2005 aveva dedicato uno scritto, un’analisi importante e profonda della sua pittura. Il saggio è stato riproposto in catalogo ed è tutto da leggere perché conferma di essere un contributo critico di grande valore per penetrare nell’universo di Morandi. Il titolo del saggio, Giorgio Morandi, resistenza e persistenza, già segnala i punti di affinità, approfonditi nell’intervista in catalogo. «Entrambi concordiamo sull’importanza della mano e io penso che la mano sia vitale, perché è impronta, e tocco, e il tocco sulla superficie umanizza l’arte», spiega Scully. Che poi si concede una sottolineatura storico artistica importante: «Ovviamente questo è il contrario di un certo movimento americano che va sotto il nome di pop art».

La contrapposizione riporta a quello snodo cruciale del giugno 1964, quando la pop art sbarcava trionfalmente a Venezia, con tanto di Leone d’oro per Bob Rauschenberg, mentre Morandi si spegneva nella riservatezza della sua casa di via Fondazza. Roberto Longhi, chiamato dal Tg1 a ricordare il maestro, aveva sottolineato la coincidenza come un cupo segno di declino dell’arte.

Nell’amarezza del momento il grande critico non considerava quei fattori di “resistenza e persistenza” grazie a ai quali la forza umanizzante della pittura di Morandi si è trasmessa in altre esperienze artistiche come ad esempio quella di Scully: «Io credo che la dialettica, la zona grigia, l’inclusività, la tolleranza siano forze più grandi, vitali e importanti. Ed è qui che Morandi ed io siamo alleati».

Anche Scully è consapevole che quello dell’artista bolognese è un percorso non in opposizione ma alternativo al modernismo. Morandi è vecchio e nuovo allo stesso tempo, sottolinea. Nuovo lo è in quanto anticipa, come riconosciuto da tanti artisti e teorici, l’approccio proprio del minimalismo, termine coniato non a caso nel 1965 dal filosofo inglese Richard Wollheim.

Nel solco minimalista

Sean Scully, veduta parziale dell’allestimento al MAMbo di Bologna. Foto di Ornella de carlo

Anche Scully si riconosce in questo solco, in un’accezione tutta morandiana. Lo spiega a proposito di una delle opere più potenti in mostra, Empty Heart, del 1987. L’artista la dipinge in meditazione di un fatto drammatico che lo aveva colpito, la morte del primo figlio Paul per un incidente automobilistico. «Un lamento, un quadro devastato», lo definisce. Sulla superficie della grande tela quadrata, le campiture sono stese con un ritmo lento e solenne che richiama la musica di Arvo Pärt, compositore molto amato da Scully. Nel cuore della tela, il consueto innesto pittorico suggerisce l’immagine di una porta attraverso la quale avviene il passaggio da un mondo ad un altro, dalla vita ad un “oltre”.

Scully spiega che quest’opera, con il suo status austero, imponente, profondamente silenzioso, «ha un forte legame con il minimalismo, ma con una profondità d’animo sconosciuta al minimalismo, che è un movimento artistico molto più freddo». Al contrario la sua pittura, pur dentro il rigore di scelte compositive modulari («la banalità della griglia»), è contrassegnata da un’identità tattile («il tocco sulla superficie umanizza l’arte», sempre parole sue), da un calore materico che non ha bisogno di accensioni cromatiche. L’astrazione per lui non è presa di distanza dalla realtà, piuttosto è possibilità di vedere e rappresentare le strutture umane nella loro essenzialità, senza i condizionamenti narrativi suggeriti dal contesto.

Che la tensione poetica delle riflessioni di Scully sia tale da reggere quella dei sui quadri, lo dimostra anche il titolo dato alla mostra. È tratto da uno degli appunti su carta che costituiscono una sezione di grande interesse della rassegna bolognese: sono fogli sui quali parole e abbozzi visivi di opere entrano in azione convergendo in modo collaborativo nella messa fuoco dell’idea. A Wound in a Dance with Love è tratto da un appunto datato giugno 2004, al quale Scully ha assegnato anche un titolo, What Art is.

Cos’è dunque l’arte? È “una ferita in una danza con l’amore”. Una risposta indubbiamente suggestiva, che però a Scully preme riportare subito in una dimensione di misurabilità: «Se la ferita e l’amore hanno le stesse dimensioni, possono danzare bene». È sbagliato però pensare che ferita e amore siano esperienze derivate dalla vita vissuta e tradotte nelle opere. I pensieri e gli appunti di Scully sono tutti interni al cosmo pittorico: «Il quadro è insieme soggetto e oggetto. Non c’è nessun triangolo. Quando dipingo, io guardo la tela sul muro e la dipingo. Mi muovo avanti e indietro, tra la mia sedia e il quadro, in una linea retta tra me e l’opera». La ferita è la coscienza che il dipinto è sempre «un corpo imperfetto»; l’amore è invece quell’energia che spinge ogni volta a conferire una struttura visiva al sentimento della realtà.

A volte questo sentimento stimola Scully a operare uno scarto inatteso: in mostra accade con il ciclo Madonna, originato dall’arrivo di un figlio, Oisin, nato dalla relazione con Liliane Tomasko. Lo scarto avviene in direzione della pittura figurativa, da cui per altro Scully era partito, come evidenzia la serie di pastelli datati 1966/67, presenti in mostra («il numero uno del mio catalogo ragionato»), fortemente influenzati dalla pittura di Karl Schmidt-Rotluff. Il ciclo Madonna è composto di grandi quadri dipinti a olio su alluminio, dove mamma e bambino giocano con sabbia e secchielli in riva al mare in un contesto di serenità quasi matissiana.

Ma l’andamento delle campiture colorate e delle vaste linee curve che disegnano l’architettura delle tele riportano a un’idea archetipa molto più che autobiografica. È l’archetipo della madre con il figlio, riflesso di ciò che accade sulla tela quando la ferita va all’unisono con l’amore.

© Riproduzione riservata