Pochi spettacoli sono incantevoli come vedere un bambino piccolo che prepara un presepio, oppure il suo stupore nel visitare quelli, grandi e popolatissimi, allestiti nelle chiese o all’aperto. Un incantamento che si ritrova nella interpretazione fiabesca del pastore che dorme nei presepi napoletani. Se infatti quella figurina si svegliasse – vuole un racconto – la ricostruzione della scena che rievoca la natività di Gesù sparirebbe come un sogno, perché il presepe è il suo sogno.

Sul tema si sono ora moltiplicati libri, articoli, trasmissioni perché proprio quest’anno cade l’ottavo centenario del presepe – letteralmente «mangiatoia», dal latino classico praesepe (da cui il medievale praesepium) – che Francesco d’Assisi volle a Greccio, una piccola località sui monti Sabini tra Umbria e Lazio, per celebrare nel 1223 il Natale. Ma il presepe da lui suggerito non fu il primo, anche se nessuna celebrazione della nascita del salvatore è stata così importante come quella, divenuta fondativa.

Francesco dunque non inventò il presepe, come dal tardo Cinquecento si iniziò invece a sostenere. Quella celebrazione nel bosco di Greccio fu però talmente espressiva della sua adesione totale al Vangelo da legarsi profondamente all’immagine di colui che dai contemporanei venne visto come un «secondo Cristo» (alter Christus).

L’origine

Della nascita di Gesù trattano innanzi tutto due dei quattro vangeli canonici, quelli secondo Matteo e secondo Luca, scritti nella seconda metà del I secolo, e alcuni apocrifi posteriori, ognuno accentuando aspetti diversi. Con due elementi in comune: la natività prodigiosa da Maria di Nazareth, una giovane vergine promessa in sposa a Giuseppe, e il luogo dove viene alla luce il messia (cioè l’«unto» di Dio, in greco christòs): Betlemme, località della Giudea poco distante da Gerusalemme.

I racconti sono essenziali. Secondo Matteo alcuni misteriosi magi guidati da una stella giungono dall’oriente per adorare «il re dei giudei», secondo Luca a visitare il bimbo salvatore sono dei pastori che vegliavano di notte le loro greggi. Già nel II secolo i due racconti canonici vengono combinati da Taziano nel Diatessàron, fortunata riscrittura dei quattro vangeli, proprio come nei presepi, fioriti meravigliosamente soprattutto a Napoli.

Fissata nella prima metà del IV secolo la celebrazione liturgica del Natale, si diffondono presto le prime rappresentazioni della natività di Cristo. Spesso su sarcofagi, raffigurano soltanto il bimbo in fasce nella mangiatoia tra il bue e l’asino. Assenti nei testi canonici, le due miti creature fanno la loro comparsa nel Vangelo dello Pseudo-Matteo, forse coevo, e non mancheranno più nelle raffigurazioni successive.

Il testo apocrifo ne spiega la presenza con due antiche profezie ebraiche: «Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Isaia [1,3]: “Il bue riconobbe il suo padrone, e l’asino la mangiatoia del suo signore”. Gli stessi animali, il bue e l’asino, lo avevano in mezzo a loro e lo adoravano di continuo. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Abacuc [3,2, nella traduzione greca], con le parole: “Ti farai conoscere in mezzo a due animali”», in genere considerati simboli degli ebrei e dei pagani, insomma di tutta l’umanità.

Tavole e statue

Come documenta il Contro Celso di Origene, scritto intorno al 250, a Betlemme si mostravano la grotta dove si riteneva che fosse nato Gesù – anch’essa assente nei testi canonici ma nominata nei vangeli apocrifi e da Giustino a metà del II secolo – e la mangiatoia.

Reliquie della natività di Cristo arrivarono a Roma durante il pontificato (642-649) di Teodoro I, originario di Gerusalemme, e vennero collocate a Santa Maria Maggiore, denominata beata Maria ad praesepe. Nella basilica, divenuta una «Betlemme a Roma», la liturgia prevedeva due delle tre messe di Natale: la prima, nella notte, che fino al 1869 vi era celebrata personalmente dai papi, e la terza.

Se per Santa Maria Maggiore otto statue di un’adorazione dei magi vennero scolpite da Arnolfo di Cambio nel 1290, era già da un paio di secoli che «nelle chiese la notte di Natale era rappresentata ricorrendo a tavole dipinte o a statue messe sull’altare o accanto a esse o a sacerdoti-attori e ad attori» scrive Chiara Frugoni nel postumoIl presepe di san Francesco (il Mulino).

Grazie all’analisi parallela di testi e raffigurazioni, il libro ricostruisce la «storia del Natale di Greccio», confermando come sulla sua novità – che è la novità dello stesso Francesco – si sia accesa da subito una vera e propria guerra di biografie.

La più antica e attendibile è la Vita prima, scritta per incarico ufficiale dal francescano Tommaso da Celano poco prima della canonizzazione di Francesco, avvenuta nel 1228, due anni dopo la morte. Lo stesso Tommaso attenua la scelta radicale di povertà del santo per richiesta dei suoi superiori in un secondo testo del 1244.

Più tardi Bonaventura da Bagnoregio, generale dell’ordine, ne compone altre due: una prima breve e infine, nel 1263, la Leggenda maggiore, ancor più normalizzata e che – ricorda Frugoni – «nel 1266 divenne l’unica biografia ufficiale e l’unica ammessa».

Una nuova Betlemme

Tutte le altre biografie furono allora ricercate e distrutte. Un’operazione così sistematica che soltanto nel 1768 fu recuperata la prima di Tommaso di Celano, come ha riassunto il giornalista e scrittore Roberto Beretta (San Francesco e la leggenda del Presepio, Medusa). Nel corso dell’Ottocento vennero poi ritrovati gli altri testi, sopravvissuti in rarissime copie.

«L’ideale più forte di Francesco, il suo desiderio maggiore, il suo proposito supremo, era quello di seguire in tutto e per tutto il santo Vangelo, e di seguire la dottrina e le orme di nostro Signore Gesù Cristo perfettamente, con ogni attenzione, con ogni cura, con tutto il fervore della mente e del cuore» scrive Tommaso introducendo l’episodio di Greccio.

E aggiunge: «L’umiltà con cui si era incarnato e l’amore con cui aveva affrontato la passione occupavano a tal punto la memoria di Francesco che quasi non voleva meditare su nient’altro».

Natale che dunque racchiude ed esprime l’intero mistero dell’incarnazione e della passione di Gesù.

Francesco a un amico di nome Giovanni disse che voleva «evocare il ricordo di quel bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia quando fu messo sul fieno tra il bue e l’asino». A richiesta di Francesco si prepara così solo l’essenziale, come nella più antica iconografia, e cioè la mangiatoia, il fieno, i due animali: «La semplicità è onorata, la povertà è esaltata, l’umiltà è lodata. Greccio è come una nuova Betlemme».

Normalizzare la radicalità

Nel bosco un sacerdote celebra l’eucarestia sulla mangiatoia, Francesco proclama cantando il vangelo, poi predica «e stilla parole dolcissime sulla nascita del re povero e la piccola città di Betlemme». Evoca più volte «il bambinello» e prolunga il nome di Betlemme «come il belato di una pecora, e lo diceva riempiendosi la bocca di voce o per meglio dire di tenero affetto. E ogni volta che diceva “bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi ad assaporare tutta la dolcezza di quelle parole e cibarsene» racconta il biografo. Tale è l’emozione che uno dei presenti «ha una visione. Vedeva giacere esanime nella mangiatoia un piccolino; a lui si avvicinava il santo di Dio e lo svegliava da un sonno profondo. Né questa visione – spiega Tommaso da Celano – avveniva senza un motivo, per il fatto che il bambino Gesù era stato del tutto dimenticato nel cuore di molti, ma in loro, per grazia divina, attraverso il servo Francesco quel bambino era risuscitato».

Indagando l’iconografia francescana Frugoni mostra la normalizzazione della radicalità evangelica, testimoniata dal santo sulla povertà e sul rifiuto della violenza: così del Natale di Greccio resta «un silenzio ben dipinto». Lucetta Scaraffia nella prefazione al libro di Beretta sintetizza che quel presepe, «più che un antenato dei nostri presepi domestici, era un severo monito ai suoi frati per segnare la via rigorosa che lui stesso aveva scelto senza cedimenti o ammorbidimenti», poi attenuata.

In ogni caso «l’importante è che nella chiesa coesistano i due versanti del messaggio cristiano – quello più alto e rivoluzionario e quello più “normale” e accessibile – e che l’uno non cancelli mai l’altro». Come mostra il presepe, «piccolo mondo, realistico e simbolico al tempo stesso».

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