C’è una storiella antica a cui mi capita di ripensare spesso, ultimamente.

Fa parte del nucleo più arcaico del mito greco; di quei miti che si avventurano fra i primi enigmi che colpirono l’immaginazione dei nostri lontanissimi antenati, scatenando in loro la meraviglia che secondo Aristotele diede l’avvio alla filosofia, ovvero all’arte del ricercare le cause delle cose.

La risata di Demetra

Prima ancora della filosofia, era stato il mito a prendersi la briga di replicare allo stupore, intessendo in racconto i primi tentativi di spiegare il perché e il percome dei cicli naturali. Perché l’abbondanza dell’estate digradasse nell’inverno, in cui la natura sembra addormentata. E perché dopo ogni inverno scoppiasse una nuova primavera; perché la faccia della terra cambiasse con tanta regolarità e impertinenza da lasciare gli osservatori con un palmo di naso e la tentazione di individuare una legge, un ritmo capace di conciliare quelle metamorfosi alternate.

Il mito di Demetra e Persefone offre la via narrativa per illustrare il susseguirsi di inverni e primavere; la figlia della dea delle messi rapita nell’Ade, la conseguente angoscia della madre – ecco spiegato l’inaridirsi della terra, con l’ostinazione di una dea a punire il mondo che le ha sottratto la sua felicità. E poi la primavera, il ritorno di Persefone dagli Inferi, la gioia, e non sarà certo un caso, se in latino l’etimologia di fertile e felice intreccia i due concetti in uno.

La storiella a cui penso è una versione collaterale di questo grande mito; e aggancia la rabbia sterile di Demetra alla terra che torna a gioire, attraverso la risata di Demetra. Demetra rise perché Baubò, vecchia dea dai modi licenziosi – che anzi, secondo alcune interpretazioni, priva di testa, parlava direttamente attraverso la vulva – si sollevò la veste mostrandole le pudende. Demetra scoppia in una risata davanti allo spettacolo dell’impresentabile; davanti a una divinità più arcaica ancora di lei, che sa farla ridere anche nella paura, nel dolore, nello smarrimento.

Quello che mi piace, di questa storia buffa e profonda, è che – con l’irruenza del gesto di Baubò, con la reazione infantile di Demetra – ci mette di fronte a un limite sconcertante, quasi inafferrabile: fra quel che possiamo accettare e quello che accettare è impossibile, risuona una risata più potente ancora delle lacrime. Questo mito scollacciato, ingenuo, gioioso, compie la missione del sublime: ci porta ad affacciarci, sub limen, sulla soglia, sul confine di quello che ci è umanamente sopportabile vedere, cioè sapere; e lì, su quel confine, ci permette la gioia dello sconcerto.

Uscire dal narcisismo

13 April 2021, Mecklenburg-Western Pomerania, Brook: A young woman sits on a fallen tree trunk below the steep coast on the beach of the Baltic Sea. The rough and partly untouched coast near the Kl'tzer Winkel is considered a little insider tip for nature lovers and is used as a nesting site by sand martins in summer. Photo by: Jens B'ttner/picture-alliance/dpa/AP Images

Penso spesso a questa storiella per trovare un antidoto, una via d’uscita alle rimuginazioni ansiogene che mi colpiscono, sempre più di frequente, al cospetto di notizie allarmanti che arrivano da ogni parte del mondo e mi costringono ad affrontare il pensiero dell’incombente catastrofe climatica.

Un pensiero al quale mi rendo conto di non saper reagire se non cedendo al richiamo del panico o a quello di un senso di colpa con venature di pensiero magico, come se la natura fosse una buona madre che noi abbiamo tradito, e che ora dobbiamo cercare di risarcire, di rabbonire. Cosa che, peraltro, in parte è anche vera. È vero che i nostri comportamenti individuali devono cambiare; che dobbiamo impegnarci a limitare gli sprechi e a coltivare uno stile di vita sostenibile; è vero e importante, anche se la crisi ambientale ha radici politiche profonde, e richiede una risposta politica che vada al di là delle nostre scelte di consumatori privilegiati.

Ma mi sono resa conto che questa risposta eccessivamente emotiva – che troppo spesso, come tornando su un sentiero già segnato, mi trovo a ripercorrere per finire nel folto intricato dell’ansia e del rimorso, in una vertigine di buoni propositi – rischia di paralizzarmi, di rendermi meno lucida e, alla fin fine, di imprigionarmi in un generico senso di impotenza e di disperazione.

È a questo punto, in genere, che provo a ripensare alla storia di Baubò; questa storia che mi fa ridere di piccolezza. Che mi ricorda, con il tocco umoristico indispensabile a una rivelazione del genere, qualcosa di molto simile a quel che sosteneva un comico geniale, George Carlin, in un suo spettacolo di trent’anni fa: che noi della natura siamo una porzione minuscola, un incidente trascurabile, superabilissimo, malgrado l’astuzia e la pertinacia con cui ci siamo industriati a metterle i bastoni fra le ruote.

La natura, probabilmente, sarà salva più senza il nostro aiuto, che con; siamo noi, noi intesi come specie umana, a essere in pericolo di non salvarci.

Non è facile accettare questa idea, direi anzi che è una sfida irricevibile per noi umani, abituati a porci al centro di tutto. Eppure, lo sforzo di uscire – magari con una risata, non importa se provocata da Carlin o Baubò – dalla dialettica del narcisismo ci potrebbe aiutare, anche solo a non passare da un estremo emotivo all’altro, da un senso schiacciante di onnipotenza all’ansia assoluta che nasce dall’idea di poter controllare tutto.

Ci potrebbe aiutare a recuperare uno sguardo che faccia della meraviglia il motore della ragione; e che ragionevolmente ammetta la propria piccolezza, senza imporsi in un disegno provvidenziale in cui il destino umano stia al centro di tutto.

Gli occhiali di Spinoza

C’è, in effetti, un maestoso edificio filosofico in cui penso sia arrivato il momento di addentrarci, in questo momento delicato che ci chiama a guardare alla natura con occhi finalmente sgombri dal pregiudizio antropocentrico. Lo costruì con pazienza e perizia geometrica un ebreo scomunicato di Amsterdam, quattro secoli fa; Baruch Spinoza, che di mestiere fabbricava occhiali, e seppe fabbricare, con le parole, occhiali potentissimi con cui guardare alle cose. Liberandoci dall’idea che il mondo sia creato ad uso dell’uomo da un Dio personale, Spinoza forgia nell’Etica un dio che rifugge da ogni finalismo provvidenzialistico e incarna l’assoluta necessità dei legami causali, in perfetta identità con la natura, che vive in ogni cosa.

Forse, insomma, è il momento di essere spinoziani; di guardare, da bravi panteisti che credono nella sola eternità dell’universo, alla vita della natura che perpetuamente si rigenera, e concentra ogni sforzo nel perpetuare la propria esistenza; che innerva l’orizzonte di relazioni infinitesime di cause e di effetti che per ignoranza, per superficialità, per la fretta di trarre conclusioni, di assolverci o di disperarci, spesso non riusciamo a vedere.

Di mantenere la mente aperta alla scienza, che quei rapporti di cause e di effetti indaga in maniera laica e libera. E di ricordarci che noi, di questa natura infinitamente potente e resistente, non siamo che una piccola, modesta espressione; siamo solo modi, manifestazioni passeggere, in grado però di inventare storie perturbanti come quella di Baubò e di Demetra, e in qualche caso, di far sognare alla ragione un disegno preciso, e cristallino, dentro il labirinto delle cause e degli effetti.


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Pubblichiamo un brano di Ilaria Gaspari a proposito del suo incontro insieme a Pietro Del Soldà dal titolo Della natura degli antichi comparata a quella dei moderni, in cui mostreranno come l’idea di natura è cambiata dall’epoca antica, in cui era intesa come armonia, ordine di tutte le cose, all’epoca moderna, dove natura diventa simbolo di caos, disordine e, sul piano etico-politico, conflitto.

Domenica 2 ottobre, ore 12,00 Auditorium del Mann, Piazza Museo, 19 Napoli. Per la rassegna Fuoriclassico, da venerdì 30 settembre e domenica 2 ottobre al Museo archeologico nazionale di Napoli. Questa quarta edizione, intitolata La natura e l’artificio, si prefigge proprio di ragionare attorno ai concetti di naturale e artificiale.

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