Roland Barthes diceva che la letteratura è quello che si insegna. Con maggiore verità potremmo dire che il paesaggio è quello che si fotografa. Lo sapevamo dalle mille immagini fotografiche di paesaggio che ci bombardano dalle pubblicità, dai selfie con sfondo paesaggistico che intasano i nostri telefonini, dalle icone paesaggistiche che connotano certi territori italiani, al punto che alcuni comuni toscani hanno messo una sorta di copyright sulle riproduzioni fotografiche dei loro luoghi simbolo. Ma ora una mostra alle Scuderie del Quirinale, L’Italia è un desiderio (aperta da luglio a settembre) ci fa vedere non solo come la fotografia in un secolo e mezzo ha plasmato l’immagine corrente del paesaggio italiano, ma quanto ha contribuito a cambiarla.

Paesaggi e panorami

E lo fa fin dalla prima sala, dedicata ai panorami dell’Ottocento. “Panorama” è una parola dalla storia singolare. Per molti, nell’uso comune, è un sinonimo di paesaggio. «Guarda il panorama!», «Che bel panorama!»  Roberto Longhi, già negli anni Trenta del Novecento, ironizzava sulle guide turistiche che segnalavano a ogni piè sospinto i bei pan. (abbreviato per risparmiare spazio) che si potevano godere da punti di osservazione disseminati lungo le strade.

Ma il panorama, in origine, un dispositivo ottico inventato alla fine del Settecento. Sulla parete interna di un cilindro di legno si snodava l’immagine di un paesaggio o di una città. Lo spettatore si sedeva al centro, e l’immagine scorreva attorno a lui dandogli l’impressione di poter dominare con lo sguardo tutto lo spazio circostante. Inizialmente l’immagine era una tela dipinta o disegnata, ma presto, con l’invenzione della fotografia, fu l’immagine fotografica a dare, con maggiore effetto di realtà, la medesima impressione. Walter Benjamin, nel suo Infanzia berlinese, parla a lungo del Kaiserpanorama, che lo affascinava quando era bambino.

Dal dispositivo ottico la parola panorama passò a indicare il paesaggio reale, rafforzando quella concezione del paesaggio come bella veduta che era stata forgiata dalla pittura europea a partire dalla fine del Quattrocento, quando nacque la parola paesaggio, appunto per indicare in primo luogo la rappresentazione pittorica di esso. Ancora nella legge per la tutela del paesaggio voluta dal ministro Bottai nel 1939 a essere protette erano «la bellezze panoramiche considerate come quadri», e i punti di vista o di belvedere dai quali si godevano quelle bellezze.

Si parlava solo di pittura, ma le fotografie esposte alle Scuderie del Quirinale, provenienti dalle collezioni Alinari e dal Museo di fotografia contemporanea, dimostrano quanto la fotografia si fosse già impadronita dell’immaginario paesaggistico pittorico, in parte rilanciandolo, in parte modificandolo. Così troviamo nella fotografia dei maestri del secondo Ottocento le icone del paesaggio italiano: la campagna romana con i resti dell’acquedotto Claudio e le sue greggi di pecore, fotografata da Giacomo Caneva; i faraglioni di Capri di Giorgio Sommer, le Marmore dei fratelli Alinari, il Cervino di Vittorio Sella.

Il paesaggio perde terreno nella grande pittura del Novecento, evitato dalle avanguardie e ridotto spesso a genere marginale, da pittura di consumo. In compenso cresce la sicurezza nella rappresentazione fotografica, che diventa sempre più autonoma.

Altro che immagini trasparenti

Un filosofo del Novecento ha detto che le fotografie (almeno quelle analogiche) sono immagini trasparenti, nel senso che il mezzo viene scavalcato alla volta del quid fotografato. Ma è dubbio che sia così, e non solo con l’avvento del digitale. Percorrendo le sale della mostra, colpisce il contributo sempre più presente delle scelte del fotografo.

Già nell’Ottocento ci sono delle magnifiche fotografie di nuvole degli Alinari, che fanno venire in mente che Constable diceva che non c’è paesaggio senza cielo, e che un cielo con le nuvole è sempre la keynote di un paesaggio. Nel catalogo della mostra Adriana Cavarero richiama l’attenzione su uno straordinario cielo solcato da innumerevoli uccelli che la enorme profondità dell’immagine riduce a forme minutissime e indistinguibili, opera di una fotografa di oggi, Paola De Pietri.

È un’immagine che potrebbe ricordare certi disegni altrettanto minuti di Gianfranco Baruchello, ma quasi ogni immagine della mostra potrebbe sollecitare un confronto con altri mezzi degli artisti di confrontarsi con la natura. Se i giovani mediterranei di Wilhelm von Gloeden, nella Capri di fine Ottocento, sembrano usciti da un dipinto di Alma Tadema, quasi fossero greci dell’età di Pericle, arrivando ai nostri giorni gli artisti cercano sempre meno semplici immagini della natura, e sempre più esperienze che ci mettano in rapporto con essa.

Le colline lavorate di Mario Giacomelli sembrano i Cancelled Crops di Dennis Oppenheim, un land artist americano che fotografa campi su cui le lavorazioni hanno creato forme geometriche, in opposizione a una natura che non conosce la linea retta, mentre i lavori di The Cool Couple, un team di artisti contemporanei, ricordano certe installazioni del più noto tra gli artisti ambientali del secolo scorso, Robert Smithson.

Non siamo solo il bel paese

Nel secondo dopoguerra la fotografia dilata la nozione di paesaggio, fino a ricomprendervi le persone che lo abitano e le loro tensioni. L’immagine non è più celebrativa, ma può aprirsi a rappresentare anche i conflitti, le storture, le dissonanze. Non siamo più il bel paese, e il fotografo si muove nelle periferie urbane, come Alberto Lattuada, inquadra tuguri e scheletri di edilizia. Ma anche proteste sociali e moti studenteschi, come Uliano Lucas, o vittime della mafia come Letizia Battaglia.

Perché la fotografia ha questo di notevole: può documentare il degrado e al tempo stesso produrre dei lavori esteticamente forti, validi, così come ha saputo fare certo cinema italiano non solo nell’età del neorealismo. Lo hanno fatto Gianni Amelio nel Ladro di bambini o Matteo Garrone nell’Imbalsamatore o in Dogman o in Gomorra. Mentre un’Italia lontana dagli stereotipi paesaggistici, quotidiana e minore era al centro della mostra voluta da Luigi Ghirri e poi diventata un libro fondamentale, il Viaggio in Italia del 1984, nel quale le fotografie di Jodice, Battistella, Ghirri e molti altri si contrapponevano proprio all’immagine del “giardino d’Europa” coltivata da tanta letteratura di viaggio dal Seicento in poi.

Un’immagine edulcorata del paesaggio italiano sarebbe oggi profondamente falsa. Non si può tacere la pervasiva trasformazione alla quale è andato incontro il paesaggio italiano negli anni del boom economico, quando la nozione stessa di paesaggio sembrava un inciampo e un ostacolo allo sviluppo, e i pochi che si opponevano al saccheggio erano bollati come passatisti ed estetizzanti. La fotografia, il cui proprio, diceva sempre Barthes, è il “così è stato”, ha delle risorse straordinarie nel metterci sotto gli occhi, con quieta ma implacabile severità, quello che è stato fatto.

Ci sono, nella mostra immagini che non possiamo guardare senza provare un senso di struggimento e di rimpianto, come quando Fosco Maraini inquadra Agrigento dalla Valle dei Templi. E Agrigento è lì, più o meno come l’avrà conosciuta Pirandello, con il suo profilo modesto ma rispettoso. Nulla a che vedere con quello che si offre oggi a chi guarda nella stessa direzione dallo stesso luogo, e vede un profilo dissonante di brutti grattacieli del tutto avulsi dal tessuto urbano tradizionale, un po’ come è accaduto, anche se per fortuna con un solo edificio fuori scala, a Noto o a Gallipoli.

Lo struggimento di ciò che era lascia posto all’indignazione al risentimento guardando la foto che riproduce, con implacabile oggettività, la cosiddetta Collina del disonore. Quasi duecento villette appollaiate senza alcun disegno sull’altura di Pizzo Sella, di fronte a Palermo, a bruttare per sempre, orrendamente, una collina intonsa. Tutto ciò è stato possibile grazie all’alleanza perversa tra interesse economico, mafia, amministrazione locale. La fotografia può fare molto per richiamare l’attenzione su come la criminalità organizzata si è appropriata del territorio attraverso le immagini dei luoghi che ha contribuito a devastare: il progetto Corpi del Reato di Tommaso Bonaventura, Alessandro Imbriaco, Fabio Severo va proprio in questa direzione.

Perché forse è vero che il paesaggio italiano è un desiderio, ma prima di tutto è una responsabilità. Una nostra responsabilità.

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