Dal rinvio di una grigliata alla perdita del padre: un’estate segnata da carne rimasta in frigo, ricordi sospesi e un lutto che si fa strada solo alla fine
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
È tutto pronto per domani. Le costine, le salsicce, e le cosce di pollo ben stipate nel frigo, le birre distese nei ripiani alti. Scorro sul telefono le foto della grigliata dell’anno scorso, di quello prima, e ancora indietro fino a quando eravamo in tre. Poi la sera il tipo del meteo dice che sabato pioverà.
Maggio è così, fa mio padre. Senti, rimandiamo a domenica: mette sole, quello non sbaglia mai.
Domenica mi sveglio presto: ho tutta la carne, le birre e le coche da tirare fuori dal frigo. C’è da prendere la ghiacciaia, la coperta grande, e pure la diavolina, anche se devo portarla senza farmi scoprire. Ci sono un milione di cose da fare, e mio padre non vuole saperne di alzarsi. Ne approfitto per fare colazione con calma, e alla fine sono contento di essere solo, senza di lui che mette fretta. Me lo godo, questo suo ritardo. Controllo che ci sia tutto, costine, salsicce, cosce di pollo, e chiudo i sacchetti. Mi porto avanti e penso a quando glielo rinfaccerò. Ci siamo svegliati tardi, stamattina? Dai, ti ho lasciato un po’ di caffè. Quando chiamo l’ambulanza gli tirano il lenzuolo sopra il viso e basta, non c’è altro da fare.
Mio zio dice, Aspetta, vengo a prenderti.
Il funerale
Mi porta in un bar piuttosto frequentato, mi fa sedere a un tavolino e torna poco dopo con un succo e una pastina al cioccolato, una di quelle palle con le scaglie di cacao sopra. Forse dovrei dirgli che ho già fatto colazione e che non ne ho voglia, ma la verità è che ne ho voglia. Mentre mangio lui continua a telefonare – decine di chiamate secche e ripetitive in cui il nome di mio padre salta fuori a singhiozzi.
Quando arrivo a casa di mio zio penso che il peggio sia passato. E infatti ci diamo una pacca sulla spalla e ci diciamo, Forse è meglio andarsene così. Frasi del tipo, Almeno non ha sofferto. Diciamo, Aveva perfino ripreso a correre, e anche, Ha sempre avuto il sonno profondo. Ridiamo, e per un attimo abbassiamo la guardia e ci facciamo male. Vuoi fermarti a dormire qui?, mi chiede poi.
C’è il funerale da organizzare, lui insiste per accompagnarmi. Io preferirei sbrigarmela da solo, ma non ho idea di cosa bisogna fare, e un po’ mi piace che mi tratti come un bambino. Andiamo qui, ci siamo sempre trovati bene, dice riferendosi a un’impresa di pompe funebri. Mi trovo a sorridere del fatto che uno ci si possa trovare bene, che uno possa consigliarla come un qualsiasi altro negozio. Qui ci conoscono da generazioni, digli che ti ho mandato io. Per ogni cosa ridicola o divertente o stupida che penso, mi sento in colpa. Mi chiedo se da fuori si vede che sto tradendo il lutto con un pensiero divertente o ridicolo o stupido. Mi chiedo se dovrei provare più dolore.
Il giorno del funerale ho un sorriso tirato che non accenno a mollare. Non voglio mostrarmi forte, non so nemmeno chi sia presente. Non è forza d’animo, la mia: è apnea. Se smetto di sorridere annego prima della fine della messa. Ma basta trattenere il fiato e non pensare a niente, concentrarsi sui motivi geometrici del pavimento della chiesa e non pensare a niente, rombi bianchi, rombi neri, rombi mattone, se fisso i lati bianchi i cubi sembrano estroflessi, se fisso i lati neri i cubi si introflettono. È così semplice, basta non pensare a niente, stringere mani senza guardare a chi appartengono. Non pensare a niente e ignorare il prete che parla di un tipo che per coincidenza porta lo stesso nome di mio padre.
Vado a stare da mio zio, dopo il funerale. Fermati quanto vuoi, mi dice. Vorrei dirgli di no, ma la verità è che loro mi piacciono, così gli dico che mi fermo fino alla fine della scuola, mi sembra un compromesso accettabile. Ceniamo insieme, con sua moglie e i ragazzi. Io mi piazzo sempre davanti al telegiornale per guardare mia zia che cucina. Durante la cena si parla di compiti per le vacanze, della prossima gita in montagna e di un posto infallibile per prendere funghi. Tuo padre era bravissimo a trovarli, dicono. Quell’imperfetto mi spezza il fiato.
È come se rifiutassi di credere a quello che è successo. No, neanche. Io ci credo che mio padre è morto, solo che non lo capisco. Provo a dirmi che non lo vedrò mai più, e meno lo capisco e più me lo ripeto. Il massimo che riesco a immaginare, è lui che va via per un viaggio di lavoro. Il dolore alla fine lo ritrovo nel fatto che sia partito senza salutarmi.
Il freezer
Torno a casa mia che è di nuovo domenica, sono passate tre settimane dalla grigliata mancata.
È rimasto tutto com’era quando se ne sono andati quelli del 118. Le stesse lenzuola, le sue ciabatte sotto il letto, il rasoio in carica sul bordo del lavandino. Aprendo il cassetto del comodino trovo un pacchetto di preservativi e uno di Camel blu. Non sapevo che si vedesse con qualcuna. E nemmeno che avesse ripreso a fumare. Mi chiedo quali altri segreti si nascondano nella sua libreria o dentro l’armadio. Cerco fino a quando viene buio, ma trovo solo faldoni di vecchie bollette e una collezione di papillon.
Mi sveglio presto. Di nuovo faccio colazione da solo, e senza volerlo di nuovo avanzo un po’ di caffè. Poi mi chiudo in camera a provare dei riff con il distorsore. Mi rendo conto di quante cose faccio in automatico, di quanti gesti che ormai non hanno più senso continuano a sopravvivere. Preparare la moka da due. Chiudere la porta della stanza, quella del bagno. Mi comporto come se mio padre potesse tornare da un momento all’altro, non ci posso fare niente.
Verso le nove di sera mi accorgo di non aver mai mangiato. Apro il frigo sperando di trovarci un piatto già pronto. Dentro, ben stipate, ci sono ancora le costine, le salsicce, le cosce di pollo. Puzzano, ma non mi va di buttarle. Chiudo il frigo e chiamo il sushi. Lo mangio in silenzio, davanti alla TV della cucina. Solo quando ho finito tutta la salsa di soia noto che sto continuando a fissare uno studio televisivo vuoto, con delle infografiche sullo sfondo che annunciano caldo rovente e mari calmi per i giorni a venire.
Dopo qualche giorno che non lo vedo, mio zio telefona. Dice, Dai preparati, che andiamo in montagna.
Andiamo chi?
Io, la Cate, i ragazzi. Fatti lo zaino, che ti passiamo a prendere tra mezz’ora.
No, guardate, ma veramente/
Poche storie. I ragazzi non vedono l’ora di andare a funghi con te.
Davvero, piacerebbe anche a me. Solo, che sono partito.
Ma se sono passato ieri sera sotto casa vostra e c’erano le luci del soggiorno accese?
Sono partito stamattina all’alba.
Davvero? E dove sei di bello?
Ma, niente di che, sono andato al mare con un po’ di amici.
Bravo cazzo, così si fa.
Ma sì, dai. Alla fine c’è uno che ha la casa e che ci ospita.
L’ho sempre detto che sei un ragazzo in gamba. Senti, fatti sentire però. E conta che se ti stanchi e vuoi venire su abbiamo sempre un letto libero.
Gli mando un selfie dell’anno scorso, e chiudo tutte le tapparelle della casa. Mentre aspetto che mi portino un hamburger rimango a fissare il frigo. Tranne le birre, è ancora tutto lì. L’odore della carne è dolciastro e acido. Butto i ghiaccioli e i sacchetti di piselli surgelati nel lavello, insieme agli avanzi dei giorni scorsi. Poi, quando l’ho completamente svuotato, sposto la carne nel freezer.
Mio zio si fa sempre vivo, ma meno. Io gli mando le foto che i miei amici al mare pubblicano sui social. Ma sono settimane che non esco più di casa, e la cucina è sommersa dai cartoni delle pizze, dai vassoi del sushi, dalle stagnole del kebab, dalle vaschette dell’indiano. Quanto meno ho una dieta varia.
Da quando abbiamo rimandato la grigliata non ho più pulito casa. Non ho neppure buttato la spazzatura. Fino a questa mattina, quando delle formiche mi hanno svegliato camminando sul cuscino. Dopo colazione riempio cinque sacchi neri con gli avanzi di cibo accumulati in giro. Passo l’aspirapolvere, lavo per terra, pulisco i bagni. Sciacquo i piatti, scrosto i fornelli, asciugo ogni goccia con uno strofinaccio a quadretti bianco e azzurro. Esco a gettare la spazzatura. Vicino ai cassonetti c’è un vecchio, fermo, sull’attenti. Rimane a fissarmi buttare i sacchi uno a uno. Vorrei riuscire a ignorarlo, ma sento il suo sguardo sulla schiena. Mollo tutto e mi volto di scatto per chiedergli se c’è qualche problema: non c’è più.
Per ultima cosa mi dedico al freezer.
Lo svuoto, lo sbrino, lo pulisco. Sul tavolo della cucina ho appoggiato le costine, salsicce e cosce di pollo che avevamo preso per la grigliata. Rimango seduto sulla sedia a fissare quei pezzi di carne.
Sembrano un corpo smembrato. Man mano che si scongela ricomincia a emanare il suo odore pungente. Inspiro a fondo e trattengo in gola un conato di vomito. Poi prendo un vecchio trolley, e ci adagio dentro il corpo di mio padre ancora mezzo ghiacciato. Prima di uscire di casa infilo in tasca le chiavi della macchina e un papillon dalla sua collezione.
Nella pineta
È quasi buio quando arrivo. La spiaggia è deserta.
Lascio la valigia sulla riva, e mi addentro nella pineta. Torno con tutti i rami secchi che mi stanno in braccio; accendo il fuoco senza diavolina, come piace a lui. Poi, quando ha attaccato bene, prendo la carne che ho stipato nel trolley. Un pezzo alla volta la metto sulle braci.
Mi stendo e appoggio la testa al tronco di un pino marittimo che una mareggiata ha trascinato fino a qui. Guardo la carne bruciare, carbonizzarsi, diventare cenere, e piango tutte le lacrime che ho trattenuto al funerale. Rallento il respiro fissando le scintille che saltano in aria e diventano stelle.
Lo sa, vero, che qui non si potrebbero accendere fuochi?
C’è ancora un pezzo di carne che sfrigola, il grasso cola e ravviva le fiamme.
Perché fa finta di non sentirmi?
Perché mi fissavi, vicino ai cassonetti? Ci conosciamo?
Piuttosto bene, dice il vecchio. Sono colonnello dell’Aeronautica Militare.
Mi guardo intorno. L’unica traccia di vita sono le luci di posizione di una barca, a qualche miglio dalla costa.
Ci vedevamo in cucina da voi tutte le sere, dopo il telegiornale. Do le previsioni del tempo.
Prendo un tizzone e glielo avvicino al volto, per vederlo meglio. Quegli occhiali dalla montatura fina, quel sorriso ipocrita e gentile.
Allora è colpa tua, gli dico.
Colpa mia di cosa?
Ci sediamo sul tronco, gli faccio spazio accanto a me e gli racconto. Della grigliata che avevamo programmato anche quest’anno, della carne, delle previsioni che davano pioggia, della decisione di rimandare. Gli racconto di mio padre, di com’era disteso sul letto quando l’ho trovato, girato di fianco e con le braccia sotto al cuscino, nella stessa posizione in cui si era addormentato. Non avevo neanche capito fosse morto, gli dico.
Per colpa del meteo ho perso l’ultima grigliata insieme a lui. Gli dico che le previsioni del tempo rovinano la vita alla gente, che mettono pioggia e uno aveva chissà che programmi, una gita, un concerto, e invece se ne sta a casa, fuori poi c’è il sole tutto il giorno, ma ormai è troppo tardi per partire, e così una giornata è andata sprecata e non tornerà.
Ti si sta bruciando la carne, dice.
Che anche se ci prendete, non cambia niente. Domani pioggia tutto il giorno, e alla fine piove. Domani massime fino a 40°, e si muore di caldo. Ma a cosa ci serve saperlo, se non per cominciare a soffrire un po’ prima? Non prevedete il tempo, voi: anticipate solo il nostro malessere.
Mi spiace per tuo padre, fa lui.
Ero felice, quella domenica, finché facevo colazione.
Non sapere a volte è un piccolo rifugio.
Rimaniamo zitti per un pezzo. Tengo tra le dita una costa di mio padre, la giro sul fuoco fino a quando non scotta, e la lascio cadere.
Cosa non ti manca di lui?
Mi volto a guardarlo. Lui mi fissa e ripete, Cosa non ti manca di lui?
È una domanda che non capisco, ma lui rimane in silenzio e mi costringe a pensarci.
Non mi manca quando mi faceva una domanda e non ascoltava la risposta. Quando mi chiedeva come stavo e accendeva la televisione.
E poi?
Chiudo gli occhi e mi stropiccio le palpebre.
Quando diceva che con il tempo tutto si sarebbe sistemato. Lo diceva sempre, qualsiasi fosse il problema. Non mi manca il fatto che non parlasse mai della mamma. E che fosse lui il metro di paragone di tutto.
In che senso?
Che tutto quello che facevo, l’aveva già fatto anche lui.
È bello avere qualcuno da cui prendere esempio.
A me pareva un modo per sminuirmi. Anche se gli raccontavo qualcosa di me, in un modo o nell’altro si finiva a parlare di lui. Ecco, non mi manca che qualsiasi cosa l’avevo presa da lui.
Basta?
E che non buttasse mai la spazzatura.
Le luci della barca sono sparite dietro l’orizzonte.
C’è qualcosa che posso fare per te?
C’è qualcosa che puoi non fare, gli rispondo.
Mi guarda storto, crede che lo stia prendendo in giro.
Puoi non dirmi che tempo farà domani.
E questo ti farà stare bene?
Dipende se piove o c’è il sole. Preferisco scoprirlo domani.
Lo guardo allontanarsi e sparire nella pineta. Ho finito di bruciare il corpo di mio padre. Per ultima cosa lascio cadere sulle braci il papillon.
Mi scrive mio zio, chiede come va.
Ora meglio, rispondo.
Faccio un selfie, glielo mando e scrivo:
Grigliata.
[In un’altra versione, questo racconto è stato pubblicato sul n. 10 di Effe - Periodico di Altre Narratività, in collaborazione con L’Inquieto]
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