Era una mattina di giugno, con quella luce bianca, ferma ed esatta che sembra uscita da una fotografia di Luigi Ghirri. Il sole a Modena non si prendeva mai la responsabilità del tutto, nemmeno in piena estate.

Avevo deciso di andare a trovare mio nonno Riccardo, del 1895, morto nel 1969, ex tipografo erede dei torchi ducali Soliani ed editore di riviste di cultura neolatina dirette da Giulio Bertoni e Aurelio Roncaglia e di archivi giuridici diretti da Arturo Carlo Jemolo.

Ma avevo sbagliato ingresso.

Invece che nel vecchio cimitero monumentale, ero entrato in quello nuovo, il San Cataldo di Aldo Rossi: un gigantesco mausoleo razionale e metafisico, color arancio carcerario, con tetti azzurri, dove anche i vivi sembrano messi in castigo.

Era più simile a un campus universitario disabitato, vuoto dal 1984, l’anno in cui fu inaugurato e ancora incompiuto dopo cinquant’anni, con gli spigoli affilati e le finestre senza vetri, come se la morte fosse stata bandita dalla scena per dar spazio al design vertebrale. Solo i blocchi di cemento, le aperture senza finestre, e quei vuoti urbani dove il silenzio fa rumore. Sembrava una scenografia, una città per fantasmi funzionari del vecchio partito comunista.

Mi aggiravo senza meta, in quello che pareva un romanzo postumo di Italo Calvino revisionato da un architetto comunista, - sette linee orizzontali di finestre quadrate, di due metri per lato, disposte in nove colonne verticali (totale 63 finestre per ogni facciata), il problema del cimitero di Aldo Rossi non è che sembra un carcere, è che sembra un’università di architettura: di quelle dove i professori parlano tre ore di assenza e poi ti bocciano perché non hai messo abbastanza cemento a vista – quando vidi una targa di marmo con una scritta sobria e sinistra:

BEPPE COTTAFAVI
1955 –

Mi gelai.

Era il mio nome, la mia data di nascita. Nessuna data di morte. Un loculo in attesa. Mio.
Dapprima pensai a un errore anagrafico. Poi a uno scherzo editoriale. Poi – e mi parve la spiegazione più plausibile – a una forma di preveggenza burocratica del post comunismo emiliano.

Fu allora che comparve una donna: tailleur nero e camicia bianca, occhiali spessi, taccuino da bandi comunali. Silvia Sitton, l’assessora alla Cultura Funeraria, come si presentò con naturalezza.

Ha notato il suo loculo?
— Difficile ignorarlo. Anche se avrei preferito scoprirlo da morto.
— Fa parte del nuovo progetto Loculi in anteprima. È un’iniziativa culturale. Ogni mese assegniamo a figure di rilievo un loculo con pre-epitaffio. Una forma di riflessione civile sulla transitorietà.
— Io sarei una figura di rilievo?
— Lei dirige Il Dondolo, scrive sul Domani, no? Quella rubrica sui libri... come si chiama? E poi dirige festival satirici, no?
— Lei è bene informata.

— Merita una tomba visionaria.

Mentre firmavo un modulo (“solo per presa visione”, diceva l’assessora), notai un altro personaggio curioso: un uomo sulla settantina, capelli e barba bianca, giacca in lino blu, camicia su misura cifrata, occhiali da editor o da ex docente di semiotica. Aveva con sé un mazzo di libri che andava depositando sui loculi. Come fiori narrativi. Come offerte tipografiche.

Mi avvicinai.
— Conosceva tutti questi?
— Li pubblicavo. Alcuni prima della morte, altri dopo. Io sono un post-editor. Rivedo le bibliografie dei defunti. Cancello gli errori di stampa del destino.
— Ha trovato qualcosa di interessante?
— Sì. C’è uno che ha scritto un romanzo erotico bellissimo ambientato a Modena Ovest, alla Madonnina, tra la stupefacente casa studio di Cesare Leonardi e il Villaggio artigiano. Ma lo ricordano solo per un libretto di haiku didattici, di quelli col messaggio esplicito, pronto per l’uso delle professoresse democratiche.

Drammatico.

Come certe collane editoriali.

Poi si voltò verso la mia tomba.
— Lei è ancora vivo?
— Mi pare di sì.
— Complimenti. Pochi riescono a vedersi da fuori con tanta chiarezza. È un vantaggio.

Lasciò Correzione, un libro di Thomas Bernhard, sulla lastra col mio nome e sparì tra i volumi di cemento del cimitero. Con lucida ostinazione Roithamer, il protagonista wittgensteiniano di questo romanzo, ha realizzato nel centro esatto della foresta del Kobernausserwald un temerario progetto architettonico - un cono perfetto, utopistica dimora felice - che lo ha prosciugato di ogni energia. Il progetto originale del cimitero di Modena prevedeva infatti anche la realizzazione di un cono tronco in cemento alto 25 metri. Ispirato al pantheon e dedicato alla celebrazione delle cerimonie funebri religiose e laiche non è mai stato costruito.

Rimasi solo.

L’assessora tornò, con un catalogo in mano.
— Ha pensato a un’epigrafe?
— Metta: Non ho finito il manoscritto, ma chi lo fa mai?
— Spiritoso. Ironico. Fa molto... Delfini.
— Faccia anche: Vivo nel mio epitaffio. Così almeno sembra una scelta.

Poi me ne andai, con la strana sensazione di essere stato anticipato dalla mia stessa bibliografia.

Nel dubbio, tornai a casa e iniziai a scrivere qualcosa. Qualcosa che non finisse.
Come la vita editoriale. O la vera morte.

Il cimitero San Cataldo di Modena è un grandioso complesso architettonico formato dal cimitero monumentale realizzato da Cesare Costa a metà Ottocento, dal cimitero ebraico del 1903 e dall'ampliamento progettato da Aldo Rossi e Gianni Braghieri a seguito del concorso del 1971. I lavori di questa parte, concepita da Rossi come una sorta di “città dei morti” composta da diverse forme geometriche elementari, proseguono fino al 1984, realizzando circa un terzo del progetto complessivo.

Meta di appassionati di architettura di tutto il mondo, diventato iconico anche per le struggenti fotografie che gli ha dedicato Luigi Ghirri, il cimitero di Aldo Rossi è rimasto incompiuto, lasciando aperta la riflessione sul futuro di un luogo architettonico pubblico in cui costruire la memoria e la volontà collettiva della città.

Con il progetto La città dei vivi la città dei morti, l’assessorato alla cultura del Comune di Modena partecipa alla costruzione di questa memoria facendo parlare i morti che sono sepolti nel cimitero San Cataldo, per raccontare la storia della città attraverso le voci di chi l’ha abitata.

Il materiale, confluito in un itinerario a tappe che unisce storia, architettura, musica e tecnologia, è fruibile nella forma di una guida sonora in cui le tracce audio con le voci dei morti si avvalgono di una curatela musicale attenta e suggestiva con originali rivisitazioni di brani classici - da Ravel a Beethoven, da Mahler a Mendelssohn fino alla celebre Danse macabre di Saint-Saëns - nel cimitero monumentale e musiche elettroniche, a tratti ossessive a tratti ipnotiche, che si insinuano tra le forme geometriche elementari del cimitero nuovo di Aldo Rossi.

La guida sonora è disponibile sul sito.

Il Dondolo, la casa editrice digitale e civica del Comune di Modena, contribuisce al progetto con le “voci dei morti” scritte dai suoi scrittori, con l’idea che queste nel tempo arricchiscano la guida sonora.

Il primo racconto pubblicato, dal titolo Epitaffio, è del suo direttore editoriale, Beppe Cottafavi. https://ildondolo.it/


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