Gli effetti polarizzanti delle piattaforme sono sotto gli occhi di tutti, lamentarsene è sport nazionale. Le ho lasciate quattro anni fa: da allora mi sembra che le mia giornate siano più lunghe e piene
Lamentarsi degli smartphone e dei social network è diventato uno sport nazionale, anzi internazionale. Gli effetti polarizzanti delle piattaforme digitali sono sotto gli occhi di tutti e i danni psicologici che provocano sono diventati un tema di dibattito accademico. Intanto cresce il numero di ore passate davanti agli schermi: tre, quattro, cinque, dieci al giorno. A minacciare di andarsene sono tanti, ma poi pochissimi sono quelli che tengono parola. Ecco, io l’ho fatto davvero. E sono tornato per raccontarvi come si sta dall’altra parte.
Nel maggio del 2021, proprio su queste pagine, annunciavo la mia decisione. Dapprima ho chiuso la mia “storica” pagina Facebook, sacrificando i suoi 30mila follower, poi tutti i miei account personali da Twitter a Instagram. Com’è andata a finire? Quattro anni dopo, il bilancio è piuttosto positivo: ho l’impressione che le mie giornate siano più lunghe e più piene. E di quelle ore passate a scrollare e commentare non mi manca nulla.
Non è un caso se parlo come un ex-alcolista, perché ne ero davvero dipendente e nessun tentativo di autolimitazione è mai bastato. Ma liberarsi dai social non è stata una passeggiata: in un mondo in cui il self-branding è diventato vitale, scomparire dagli schermi significa tagliarsi fuori da molte opportunità professionali. Per riuscire nell’impresa, bisogna prendere questa sfida come una missione, forse come un sacerdozio.
La vita dopo i social
Sono un saggista e la possibilità di continuare ad esserlo dipende dal numero di copie che vendono i miei libri, o più precisamente dalla mia reputazione e dalla mia visibilità. Per fortuna non ho bisogno di avere centinaia di migliaia di lettori, ma è opportuno che ci sia qualche migliaio di persone che si ricordi di me. In pratica il mio destino è simile a quello dei personaggi della Storia infinita di Michael Ende, dei defunti nel film Coco, o ancora degli American Gods di Neil Gaiman: anime o divinità che rischiano di essere inghiottite dal nulla se vengono dimenticate.
Essere attivi sui social è un buon modo per non essere dimenticati. Essere polemici, aggressivi, sconvenienti, è ancora più efficace. Finire sui giornali come protagonista di un fatto di cronaca nera, meglio ancora. Io ho scelto un’altra strada: mi sono detto che avrei lasciato parlare i miei libri e fatto affidamento sull’intelligenza dei lettori. Ora di me resta solo una pagina ufficiale, di cui non vedo né like né commenti, una vetrina senza interazioni.
Il problema è che anche i più intelligenti dei lettori hanno bisogno di sapere quello che fai – se vuoi che lo comprino, se vuoi che vengano ad ascoltarti. Scomparire dai social, da questo punto di vista, è praticamente un suicidio.
Io l’ho fatto per guadagnare tempo, concentrazione, serenità e sapete cosa? Non è poi così male questa vita dopo la morte. Le ore che ho riconquistato le posso passare a scrivere, leggere, vedere film o giocare con mia figlia, e quindi alla fine a fare libri migliori. Non litigo quasi più; l’attualità mi arriva mondata dal pulviscolo dell’impermanente. La comunicazione ora la lascio fare a dei professionisti, a partire dal mio editore.
Come vivere (quasi) senza smartphone
Questo però non basta. Non sono soltanto i social a minacciare la nostra concentrazione, ma tutto il ben di Dio che ci offrono gli smartphone: comunicazione istantanea, news, video. Ed è così che, dopo avere fatto i conti con Facebook, conviene affrontare il minicalcolatore che ci portiamo in tasca.
So bene che i buoni propositi di digital detox si scontrano spesso con dei limiti concreti. Vivere senza smartphone significa innanzitutto essere irreperibili, e questo potrebbe non essere compatibile né con il lavoro né con la vita famigliare. Difficile vivere sereni sapendo che ogni momento potrebbe capitare un incidente a un figlio o a un genitore.
Perciò in un primo momento ho provato a dotarmi di un minifonino, tipo i vecchi Nokia ma grande come un pollice. Troppo drastico, usato pochissimo: il gingillo serve efficacemente per le chiamate telefoniche ma non permette di usare quella che è diventata l’app da cui passa la quasi totalità delle nostre comunicazioni, ovvero WhatsApp. Avevo bisogno di una soluzione realista, un compromesso.
Così mi sono dotato di una approccio leggermente meno luddista, un mini smartphone della taglia di un biglietto del tram, dotato del sistema operativo Android. Pare che siano molto apprezzati da spacciatori e carcerati, si trovano in quei negozietti gestiti da persone dell’Asia meridionale. Sul mio modello XS11 ho installato WhatsApp e la mail, che raggiungo attraverso un’interfaccia semplificata (OLauncher).
In questo modo riesco a leggere tutte le comunicazioni che ricevo e persino a rispondere in caso di urgenza: la scomodità mi spinge alla sintesi. E nell’impossibilità di fare altro, il telefono non mi distrae dalla lettura di libri e giornali, dalla scrittura, dal paesaggio o dal conversare con gli sconosciuti. Il lavoro vero è proprio attenderà il suo momento, quando sarò davanti a un computer.
Evidentemente ci sono innumerevoli cose che non posso fare con il mio XS11. Alcune sono proprio le distrazioni che cerco di evitare, come guardare video o spedire barzellette agli amici. Altre sono più utili: non posso consultare una mappa, recuperare i biglietti del treno, verificare il mio conto in banca, scrivere una lunga mail. Per questo è necessario organizzare la propria vita in modo diverso, scoprendo però che il tempo perso è comunque inferiore a quello guadagnato.
Una sfida di civiltà
La faccenda è ben più seria di quanto sembri. Perché dietro agli sforzi individuali per riconquistare il proprio tempo c’è una questione sia cognitiva che ecologica. Secondo studi recenti, l’adulto medio tocca il proprio smartphone oltre 2.600 volte al giorno, con utenti intensivi che superano le 5.400 interazioni quotidiane. Questo comportamento compulsivo si traduce in un tempo medio di utilizzo di circa 3-4 ore al giorno, escludendo l’uso lavorativo, con picchi che arrivano a 8-10 ore per alcune fasce d’età.
Probabilmente finiremo per considerare la concentrazione come una delle risorse più preziose del XXI secolo: perché un numero crescente di persone – tra cui molti nativi digitali – l’ha persa del tutto, abituata com’è a vivere in uno stato di sollecitazione permanente. L’economia dell’informazione è in realtà un’economia dell’attenzione, e quanto più siamo sommersi dalla prima tanto più diventa scarsa e preziosa la seconda.
La logica vorrebbe che ci dotassimo quindi degli strumenti per regolare l’informazione e ottimizzare l’attenzione, se non fosse per un piccolo problema: chi ci vende (o talvolta ci “regala”) quegli strumenti, ovvero i fabbricanti di device e le piattaforme online, non ha come priorità il nostro benessere ma il suo profitto. E quindi deve estrarre la nostra attenzione come una preziosa materia prima, anche a costo di prosciugarla.
Quanto tempo rubiamo ai nostri progetti o ai nostri cari, ogni volta che clicchiamo su una notifica o che giochiamo a Candy Crush? Quanto odio assorbiamo ad ogni lettura del nostro feed?
Infine, il problema ecologico: la lotta che si svolge ogni giorno sui social per accumulare attenzione – ovvero capitale sociale – è diventata un buco nero che inghiotte tutte le energie e tutte le risorse del pianeta.
I data center, che ospitano le infrastrutture dei social media e delle piattaforme online, consumano una quantità crescente di energia. Si stima che l’ICT (Information and Communication Technology) sia responsabile di circa il 2-3 per cento delle emissioni globali di gas serra, una percentuale destinata a crescere esponenzialmente. Ogni video, ogni notifica, ogni interazione sui social ha una carbon footprint che non può più essere ignorata.
Oggi la scelta di disconnettersi o di limitare l’uso dei dispositivi digitali non è più solo una questione di benessere individuale, ma un atto di resistenza consapevole, sia per la nostra salute mentale che per la sostenibilità del nostro stile di vita. Tutto questo vale molto più del confort, del divertimento e delle “opportunità professionali” che rischiamo di perdere.
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