Una delle migliori scrittrici italiane, da poco è stata premiata al Campiello per Di spalle a questo mondo in cui racconta gli ultimi anni di Ferdinando Palasciano, medico esistito realmente, che fu rinchiuso in una clinica psichiatrica: «Le catastrofi individuali e quelle globali vivono in una simbiosi quasi totale»
Wanda Marasco è senza dubbio tra le migliori scrittrici della letteratura italiana contemporanea. Nata a Napoli, ha esordito nella poesia, per trovare nella narrativa un meraviglioso terreno di scavo: con Il genio dell’abbandono, 2015, è stata semifinalista al premio Strega, con La compagnia delle anime finte, 2017, finalista; entrambi editi da Neri Pozza. E con l’ultimo, Di spalle a questo mondo, Neri Pozza 2025, è stata, di nuovo, semifinalista allo Strega e ha appena vinto il premio Campiello.
Un’opera di vertigine morale e intima dove la fragilità di corpi e coscienze si intrecciano. I personaggi vivono al limite, tra pietà e crudeltà, follia e lucidità, e la lingua di Marasco, densa, viscerale, poetica, sa ritrarli in modo stupendo. È un libro che interroga senza tregua: cosa significa aver cura e cosa resistere? E cosa resta di noi quando decidiamo di voltare le spalle al mondo?
Il romanzo racconta gli ultimi anni di Ferdinando Palasciano, medico esistito realmente, che fu rinchiuso in una clinica psichiatrica. Tra memorie e visioni, riaffiora la sua etica assoluta della cura, mentre la follia avvolge il suo mondo, mondo a cui lui volta le spalle.
Marasco, perché proprio Palasciano?
La sua figura, per me, è stata per anni leggendaria, è stata parte della mia vita per molto tempo. Da bambina, camminando a Capodimonte, mi capitava spesso di vedere la sua torre in collina. La osservavo, e mi scoprivo incapace di staccarle gli occhi di dosso. Quando da adulta ho iniziato a interessarmi alla sua figura, poi, quando sono stata sulla sua tomba e ne ho letto l’epigrafe, mi sono sentita tirata, chiamata dalla sua storia. E ho scoperto un personaggio incredibile.
Cosa l’ha colpita?
Tante cose, in realtà. Era uno di quei medici che guardano la malattia: lui non si preoccupava di chi stesse curando, la vita per lui era sacra in quanto tale, e non contava altro. E poi la maniera in cui si è trovato ad abitare disastri enormi mi ha molto interessata. La sua è stata un osmosi con le catastrofi della Storia, cosa che mi sembra che in questi nostri anni capiti con forte violenza.
Mi spiega?
È qualcosa che accade da sempre, però oggi ho la sensazione che succeda più velocemente, e più ferocemente, ed è qualcosa che nella storia di Palasciano, mi pare, è ben ravvisabile: le catastrofi individuali e quelle globali vivono in una simbiosi quasi totale. Un male per tutti noi. Sembra di vivere l’apocalisse, che l’uomo abbia sviluppato una grandissima sfiducia nei valori, una sorta di volontà di estinzione, quasi. Non dipende solo dagli individui, naturalmente, ma anche dalla politica. In chi ci governa non c’è competenza né intelligenza.
Come creda finirà?
O toccando l’abisso riusciremo a risollevarci, magari con una autentica rivolta morale e politica, o cesseremo di esistere. E basta.
Prima ha fatto menzione dell’epigrafe sulla tomba di Palasciano. Dio non respingere la sua anima sconvolta dalla crudeltà del mondo. Il male che era in lui non era il suo male, ma il male del mondo. Il male del mondo quando non può corromperci – come appunto non è riuscito a fare con Palasciano – o ci piega o, addirittura, ci spezza. Non abbiamo altre possibilità?
Il male del mondo può pure piegarci, può spezzarci, però io credo che si debba sempre cercare di restare fedeli ai propri ideali; proprio come fece Palasciano. Ecco, tutto quel che possiamo fare quando il dolore ci piega o ci spezza. Non voltare le spalle al bene.
Si è mai sentita piegata dai mali del mondo?
Tante volte. Mi è capitato spesso per Napoli: mi sono sentita spesso piegata dalla città quando sono stata testimone delle sue violenze. Donne che si picchiavano in strada, soprusi di camorra, povera gente schiacciata dal più feroce. E poi, chiaramente, mi sono sentita piegata dai lutti, dalle malattie. Mi sentii piegata, buttata in terra, quando a mia figlia venne diagnosticata una leucemia. Oggi riesco a raccontarlo, ma furono tempi difficilissimi. A volte, quando mi guardo indietro, mi sembra di aver vissuto dieci vite, o di più.
Si è mai chiesta, quando piegata dai mali del mondo, perché a me?
No. In fondo, perché a me non sarebbe dovuto capitare e ad altre donne, altre madri sì? Il male non sceglie – c’è, e basta. Mia figlia si ammalò tre anni dopo il disastro a Chernobyl, quando avevano previsto che in Italia ci sarebbe stato un aumento di casi di leucemia, tumore. Ecco, vede come si intersecano i mali del mondo con le nostre vite? È questo ciò di cui le parlavo.
Prima ha detto che le sembra di aver vissuto dieci vite, o di più.
Sì, e intimamente ho sempre saputo che avrei dovuto vivere così tanto, che mi sarebbe spettato un ruolo da testimone di questo mondo.
Lo ha sempre saputo?
Fin da bimba. Thomas Bernhard scrive che lui da piccolo per andare a scuola doveva camminare parecchio, e che in quel sentiero, da casa a scuola, era già avvenuto tutto, aveva già incontrato la paura e l’illusione, l’amore che ti aiuta e quello che ti ostacola. Me la sento molto cucita addosso, questa frase.
Ancora sul male. Secondo lei chi lo opera è cosciente di farlo?
È una domanda molto bella, per quanto dura e difficile. Il male è cosciente di esserlo – inteso come chi lo opera – ed è cosciente soprattutto dell’impossibilità di essere altro. È consapevole di non poter trasformarsi, così va avanti.
Non crede nella possibilità di redenzione?
Non adesso.
Perché?
Mi faccia dire, anzitutto, che non mi riferisco al singolo, all’individuo, ma al mondo, all’ampio. Mi sembra troppo compromesso, il mondo. La corruzione, l’ipocrisia troppo forti. Se un processo di redenzione accade è solo per episodi e non ancora significativi, non ancora tali da infettare di bene tutto il resto.
Allontanandoci dal male, toccando un altro tema del romanzo: prendersi cura dell’altro – come Olga fa con Ferdinando nel libro. Che significa?
Amare e accudire con i mezzi che abbiamo rispettando la volontà dell’altro.
Lei è capace di prendersi cura degli altri, di chi ama?
Credo di sì.
Di lasciare che gli altri si prendano cura di lei?
Sì, anche se mi risulta più complicato. Di solito, tendo a nascondermi per una sorta di pudicizia, una riservatezza che non sempre riesco ad aggirare.
Perché?
Credo sia conseguenza dell’educazione che ho ricevuto, che fu molto severa.
A proposito della sua infanzia, allora. In un’intervista ha detto che per anni ha rifiutato il napoletano, poiché lingua della violenza, della miseria. E ha connesso la cosa alla sua infanzia.
Ha molto a che fare con mia madre. Era di origine contadina – tant’è che lei e mio padre dovettero andare incontro a tanti ostacoli per sposarsi, perché lui, invece, era il rampollo di una nobile famiglia cattolica e mia madre all’inizio fu disprezzata dalla famiglia di lui –, insomma, era di origine contadina, mia madre, ma per decisione di mio padre in casa non si parlava il napoletano. Fu per questo che sviluppai un astio per il dialetto. Lui era per me un modello, e così non lo usavo. L’unica a parlarlo in casa era mia madre, ma solo quando era arrabbiata. Per anni quindi ho associato il napoletano alla rabbia, alla violenza di mia madre, rifiutandomi di usarlo.
Era una persona rabbiosa?
Era una donna di grandi rabbie. Mio padre morì presto, e solo da adolescente riuscii a capire che le rabbie di lei, in realtà, erano solitudine e paura. Dovette crescere da sola quattro figli con una misera pensione del comune di Napoli; lo fece egregiamente. Abbiamo tutti studiato, abbiamo avuto opportunità assai grandi per la situazione in cui ci trovammo.
Marasco, per chiudere il cerchio. Abbiamo parlato del male, soprattutto all’inizio di questa conversazione. Dovessi chiederle ora, invece, qual è il prezzo del bene, per tornare al suo Palasciano, che risposta mi darebbe?
Il prezzo del bene è ogni parte di noi stessi. È tutto. Quando operi per il bene devi farlo senza pensare a una restituzione, e pensando, invece, che potrebbe essere l’ultima occasione al mondo che hai per fare del bene. Per cui, ecco, devi dare tutto.
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