Li abbiamo visti ovunque. Sbirciati mentre consegnavano cose (non cibo), mentre trapanavano metalli in officina, o scendevano da gru: gli abiti da lavoro, e coloro che li indossano, naturalmente. Esistono capolavori da sempre: il total look marrone di Ubs, il giallo elettrico+rosso vivo di DHL, la tuta arancione fluo con strisce argento rifrangenti degli operatori/operatrici di pronto intervento e soccorso, le meravigliose cappe verdi da sala operatoria, e così potremmo andare avanti per ore.

Ma soprattutto sono le scarpe da impalcatura (fantastiche, altro che “Scarpa” o “La Sportiva”) quelle che si fanno adorare maggiormente: solide, piantate, con loghi mai sentiti. Lo stesso vale per le magliette promozionali dei vari strumenti da lavoro pesante, dai brand bellissimi e quasi metal (del resto…), seghe elettriche in particolare. Sulla scia delle categorie di moda di cui stiamo facendo piano piano un’analisi su queste pagine, ecco banalmente il workwear.

Esiste da sempre ma ora lo hanno categorizzato, eggià. Cosa c’è di meglio di questa botta operaista – che è anche un omaggio tardivo al pensiero cristallino di Mario Tronti, tristemente deceduto quest’estate – giusto prima delle collezioni donna dell’ultima settimana di settembre?

Workwear in mostra

Siamo infatti intorno ai giorni di chiusura di un’acuta mostra sul tema, che puntualizza e rilancia la faccenda: “Workwear” al Nieuwe Instituut di Rotterdam (fino al 25 settembre, a cura di Eldina Begic e disegnata dal think tank architetturale Cookies).

Scrive Begic: «penso che si tratti di una mostra importante, perché le qualità utopiche del workwear offrono il fondamento per pensare a un tipo di moda differente: abiti che abbiano come fondamento la durabilità e la solidarietà. La mostra celebra le qualità di ispirazione e potenzialità di questi capi d’abbigliamento, che sono spesso sottovalutate». Specie in una lunga fase durante la quale oggi sono vestiti da chiunque (si pensi a Carhartt, tornato hip per la seconda volta), oltre che fonte di ispirazione di una infinita schiera di designer di moda in tutto il mondo.

Ultima citazione, quella del direttore del museo, Aric Chen: «Il workwear solleva domande e risposte intorno a profonde questioni di classe e conseguentemente di equità, rivelando al contempo la bellezza, l’ingenuità e la creatività che si possono trovare dentro il comparto dell’utile».

La mostra è compatta, costruita per lunghe schiere di manichini che muovono gli arti (omaggio alle avanguardie storiche, ovviamente) e presenta intanto una sezione di abiti reali. Spiccano, tra tutti, un pazzesco grembriule portacoltelli da macellaio e il sacrosanto tributo alla figura estetica (e solidale, per forza) del pompiere, insieme ad altri scafandri di resistenza al fuoco e ovviamente a quelli indossate nella storia delle esplorazioni nello spazio. I guanti di protezione da ogni botta o sostanza sono capolavori di design di altissima sperimentazione. Tute di ogni genere vengono correttamente messe in connessione con il lavoro appunto delle avanguardie di cent’anni fa di Popova, Rodchenko e Stepanova.

È soltanto uno dei numerosi esercizi che vengono tessuti qui con il mondo dell’arte alta alta alta, ma anche con la moda alta alta alta che da questa cornucopia ha succhiato non poco, trasformandola in lusso (Elsa Schiapparelli, Yohji Yamamoto), o in un esercizio mirabile di rispetto al lavoro subordinato dal quale tutto ha origine (Massimo Osti per Stone Island e C.P. Company negli anni Ottanta, oltre all’imbattibile Helmut Lang nei 90’s) fino agli ineffabili, straordinari capolavori di Martin Margiela, senza eguali. Una speciale è dedicata al denim, ed in particolare alla manifattura cinese dei jeans, una botta geopolitica.

Abiti da lavoro e diritti

Non bastasse, a questo complesso lavoro è stato aggiunto uno strato fondamentale attraverso una serata speciale di interventi lo scorso 31 Agosto. Il focus si concentrava intorno all’attrazione poco contenuta che il mondo LGBTQ ha sempre espresso per le uniformi di lavoro, specie all’interno delle “zone temporaneamente autonome” (sì, l’ho scritto) di tanti baretti e club sparsi per il mondo: il denim, appunto, il camouflage, la figura del cowboy, i boots...

Si è andati dal lavoro cinematografico di found footage di Sam Ashby (materiali anni ‘70 con orge di operai veri e finti) alla moda di Olly Shinder che sembra unire con guizzo fru fru l’ormai celebre gorpcore – ed in generale l’innovazione nell’abbigliamento concepito per l’outdoor e l’arrampicata – con il workwear.

Parlando di sguardi, è necessario tornare in Italia dove da qualche anno la trasformazione dei pantaloni delle forze dell’ordine in para-legging e i nuovi volumi del total look cargo di quelle militari hanno prodotto una temperatura molto alta nelle comunità di genere.

L’azienda in Italia più chic che le produce è la Grassi. Esiste dal 1925 nella provincia di Varese, ed è specializzata nella produzione di uniformi (militari e di lavoro). Dagli anni Ottanta fa anche dispositivi di protezione individuale, dagli antifiamma all’arco elettrico e alla protezione balistica, inclusi completi antisommossa e mimetiche da montagna (se siete curiosi, grassi.it). Difficile dire se siano proprio loro i responsabili diretti di questa onda testosteronica ma certo non ne sono estranei ecco.

A chiudere il cerchio, Anna Grassi (nuova generazione della famiglia) ha fondato nel 2017 la start-up sostenibile GR10K – oggi in fase di emancipazione dalla casa madre – che realizza capi fashion utilizzando tessuti giacenti a magazzino e invenduti (lo chiamano «dead stock»), affidandone parte del design all’isterico e sopraffino gusto di Luigi “Armature Globale” Cippini.

Leggiamo le note di quest’ultimo sull’operazione: «la fragilità umana ci costringe a etichettare fenomeni in modo da comprendere ciò che è incomprensibile. I prodotti falsificati di terz’ordine consumati dalla gioventù contemporanea collasseranno e nascerà un interregno radicale. GR10K si riappropria di capi di abbigliamento assemblati in origine per essere dotati di una altissima resistenza. Miriamo a calibrare la visione territoriale distruttiva che erompe dal presente. Cerchiamo un contro-presente, una soluzione caustica alla fine, ormai inevitabile».

Capito dove siamo finiti? Nulla ci parla con più sagacia del «tempo che resta» che stiamo esperendo più delle frange più dilatate di quello a cui stupidamente non davamo peso: i vestiti da lavoro. E sottolineiamo con questo la rinascita degli scioperi massivi negli ultimi sei mesi nel territorio del mondo che si sembrava più improbabile, la California, e che si sta piano piano allargando ovunque. Ancora una volta, workwear trionferà.

E dopo, che apocalisse sia.

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