A ogni stella cadente, candelina spenta, ciglio staccato, coccinella trovata, merda pestata della mia infanzia ho espresso un solo desiderio: che i miei genitori tornassero insieme. Non perché fossi una piccola reazionaria antidivorzista, non perché sognassi un mondo governato da Giorgia Meloni, non perché sperassi di assistere a un omicidio-suicidio (scenario estremamente probabile, conoscendo i due soggetti in questione) ma perché come tutti i bambini non capivo niente di niente.

Non capivo mia madre, non capivo mio padre, non capivo perché i genitori della mia migliore amica, che litigavano con tifoserie separate su chi avesse avuto un impatto più rilevante sulla civiltà occidentale – antica Roma o antica Grecia – e che dormivano con non una, ma due figlie in camera da letto, fossero insieme e si amassero, mentre i miei faticavano a stare nella stessa stanza pur trovandosi d’accordo su un sacco di cose (anche se ora non saprei fare un elenco che vada oltre un’unica voce: passione per i Mano Negra).

Genitori in trappola

Nel 1998 avevo sei anni, un’età perfetta per vedere Genitori in trappola e alimentare le mie illusioni di riconciliazione familiare. Nella commedia di Nancy Meyers, Lindsay Lohan interpreta due gemelle separate alla nascita che si conoscono per caso durante un’estate in campeggio e tramano per riunire i genitori. Nessuna delle due però ricorre alla frutta.

Era dal 2017 che una pesca non creava tanto scompiglio, da quando Timothée Chalamet non si masturbava con una percoca in Call Me By Your Name di Luca Guadagnino. Questa settimana però la pesca ha fato un tresessanta, da icona gay a simbolo del conservatorismo più retrogrado, quando Esselunga l’ha usata come espediente narrativo per un nuovo spot che ha monopolizzato la conversazione per giorni.

In breve: mamma perde bambina all’Esselunga, bambina viene ritrovata nel reparto frutta con una pesca in mano, mamma dice «ok, prendiamo ‘sta pesca» ma non coglie l’occasione per insegnare alla figlia che la frutta va pesata, bambina guarda pesca senza codice a barre sfilare sul rullo alla cassa (fuori campo immagino cassiera sfavata che spiega che sì, la frutta va pesata, ma per il beneficio della tensione narrativa non ce la mostrano), bambina e mamma tornano a casa, giocano in salotto (salotto grande con parquet di pregio, nel mondo reale la spesa se la farebbero portare a domicilio), suona citofono, padre evidentemente divorziato viene a prendere bambina, madre li guarda dalla finestra come bambina guardava la pesca, bambina sale in macchina, tira fuori la pesca dallo zainetto e dice «questa te la manda la mamma», padre finge di crederci e dice che dopo la chiama per ringraziarla, con il sorriso pieno di compassione per quella creatura che non capisce niente di niente, bambina sorride soddisfatta della sua inutile mossa diplomatica e continua a non capire niente di niente per diversi anni, finché i soldi degli alimenti non saranno devoluti a uno psicoterapeuta con cui potrà lamentarsi dei traumi causati dai suoi genitori.

Una pubblicità innocua

La pesca è quello che è, una pubblicità perlopiù innocua (può una pubblicità di un supermercato essere pericolosa propaganda?) che fa leva su un grande classico della comunicazione: l’emotività. Una leva che funzionava benissimo in tempi più semplici, in cui una rosa era una rosa era una rosa e uno spot era uno spot, ma che ora apre mille parentesi di sospetto e cospirazione. Ci stanno vendendo la famiglia tradizionale, fanno sentire in colpa i genitori divorziati, Esselunga è fascista.

Ho chiesto ai miei genitori divorziati se La pesca li avesse fatti sentire in colpa, dire che erano indifferenti alla questione sarebbe un eufemismo. Mio padre ha sottolineato che ho l’età per sposarmi, procreare e divorziare a mia volta, me li facessi venire io i sensi di colpa. Lui li ha esauriti una ventina di anni fa.

Mi sono quindi chiesta con chi stesse parlando Esselunga, su chi stesse esercitando la leva, a chi stava vendendo. I genitori coetanei dei due dello spot a quanto pare hanno motivo di ritenersi offesi da una tale aggressione (forse non avevano mai considerato la possibilità che i bambini, non capendo niente di niente, preferiscono che i genitori stiano insieme a qualsiasi costo, pure se sono Jake LaMotta e la moglie Vicky che si prendono a ceffoni per strada), quindi questo subdolo lavaggio del cervello non è per loro.

I bambini non hanno la carta di credito e non fanno la spesa, quindi non è nemmeno il loro cervello che il governo sta sciacquando tramite Esselunga. Ma allora sarà mica il nostro? Siamo noi il bersaglio? Trentenni figli di divorziati che stanno cautamente ponderando la possibilità di procreare a loro volta, giovani donne dalla lacrima facile che si riconoscono nella piccola Emma e nelle sue aspirazioni mazzariniche?

La comicità non colta

Qualsiasi cosa stessero facendo, forse per eterogenesi dei fini, ha funzionato. La cattiva pubblicità non esiste, si dice in questi casi, e in effetti se n’è parlato abbastanza da farci dimenticare dell’esistenza di qualsiasi altro supermercato.

Mi dispiace solo che non siano state colte le infinite occasioni di rozza comicità cui la trama si prestava. La piccola Emma avrebbe potuto dire «questo te lo manda la mamma», ravanare un po’ nello zainetto per poi esibirsi nella sempre squisita gag di tirare fuori la propria mano con il dito medio alzato. Oppure la pesca avrebbe potuto essere fracica e tumefatta, perché scopriamo che la piccola Emma, non capendo niente di niente, l’ha tenuta fuori dal frigo nello zainetto di nylon per giorni. Emma è mortificata, ma ormai è tardi, il padre è furibondo per aver ricevuto dall’ex moglie questo messaggio di odio e passa il resto del viaggio in macchina a inveire contro “quella zoccola di tua madre”.

O ancora: Emma avrebbe potuto tirare fuori la pesca e dire “sai chi te la manda questa? Stocazzo!” oppure avrebbe potuto porgere al padre due banane: “queste te le manda la mamma, così una te la mangi”. Le possibilità erano infinite. Invece ci dobbiamo accontentare di questa versione composta e sentimentale, sperando in un futuro in cui il senso dell’umorismo vincerà finalmente sui buoni sentimenti.

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