Fin dai miei primi soggiorni (1976-1979) tra i BaNande del Nord-Kivu in quello che allora si chiamava Zaïre (ora Repubblica Democratica del Congo) mi era del tutto chiaro il modo con cui amavano definirsi.
Ricordo con precisione un incontro con un gruppo di giovani che, dietro mia richiesta, si presentarono coralmente in questo modo: «Noi siamo abakondi». Piano piano imparavo un po’ di kinande (la lingua dei BaNande) e ormai sapevo che abakondi viene dal verbo eri-konda (affondare l’ascia nel tronco dell’albero): abakondi sono dunque gli “abbattitori di alberi”, per estensione i “distruttori di foresta”.
Quando quei giovani dissero con fierezza e spavalderia «noi siamo abakondi», non intendevano dichiarare quale fosse la loro attuale professione (dubito che avessero mai abbattuto un albero in foresta), ma precisare quale fosse il modo più appropriato per designare i BaNande, l’etnia a cui sentivano orgogliosamente di appartenere.

Guerra alla foresta

Subito dopo i giovani impiegarono infatti il termine ngata per denotare le etnie vicine: i BaBila, i BaPere, i BaLese e, da ultimo, i Pigmei BaMbuti. E ngata – mi spiegarono subito dopo – significa “pigri, oziosi, fannulloni, buoni a nulla”. Insomma, è venuta fuori una nitida gerarchia inter-etnica dal punto di vista dei BaNande. Perché dare del ngata a BaBila, BaPere, BaLese: non sono forse anche loro dei coltivatori come i BaNande e, soprattutto, coltivatori che disboscano la foresta per ottenere campi da coltivare? Sì, ma non come i BaNande!
Gli altri coltivatori si limitano a disboscare tratti di foresta, dove impiantano i loro villaggi, ma – secondo il loro modello tradizionale – dopo alcuni anni abbandonano il villaggio, lasciando che la foresta si riprenda il terreno che le era stato sottratto (insomma, un’agricoltura itinerante in foresta: una sorta di accordo con la foresta).

I BaNande invece dichiarano apertamente guerra (oluhi) alla foresta, come se essa fosse un nemico: non cercano compromessi, l’affrontano direttamente e dall’esterno, così da farla arretrare per impiantare campi e villaggi permanenti. «Là dove c’era la foresta, ci sono ora villaggi e uomini» – era una frase che sentivo ripetere specialmente dagli anziani. In questo quadro gerarchico il posto più in basso era occupato dai più ngata di tutti: i Pigmei, i quali non solo vivono dentro la foresta (come fanno le scimmie … e il paragone con le scimmie generava in chi scrive un certo disagio), ma si rifiutano tassativamente di adottare le tecniche dei coltivatori.

Era ormai chiaro: il leitmotiv della cultura che avevo deciso di studiare era la guerra contro la foresta, e che la foresta (omusitu) fosse il nemico appariva evidente da diverse circostanze. A me piaceva ogni tanto spingermi in foresta: con l’aiuto di alcuni amici nande ero entrato in contatto con un gruppo di BaMbuti; mi trovavo bene con loro; lì non facevo ricerca sul campo, in senso professionale; mi piaceva semplicemente andare con loro dentro la foresta e godere, insieme a loro, di queste piccole esperienze: udire i suoni della foresta, lasciarsi affascinare dai giochi delle luci e delle ombre, attraversare i ruscelli limpidi, sentire i profumi dei fiori e della vegetazione … tutte cose che – a parte i miei amici personali – i BaNande non solo non apprezzavano, ma disapprovavano.

Per loro omusitu è un mondo pericoloso, oscuro, infido, ostile: da fronteggiare e da abbattere. E io cominciavo a trovarmi in una situazione problematica.
Fare ricerca sul campo significa sviluppare una buona dose di empatia, significa aderire – almeno un po’ – ai valori, ai sentimenti della gente con cui si condivide una certa esperienza di vita. Io sentivo la durezza mascolina degli abakondi; ne vedevo il riflesso soprattutto nella loro organizzazione politica tradizionale; ero ormai disposto e mi ero attrezzato a vedere le implicazioni di questa durezza anche in altre sfere (per esempio, nel loro modo di concepire le relazioni sessuali: un modo da abakondi).

La coscienza

Ma, da un certo punto in poi le cose cominciarono a prendere un’altra piega, così da arrivare a cogliere risvolti inattesi e nascosti, e comprendere, più in generale, che le società non sono quasi mai blocchi unitari, modellati da un’unica logica. I BaNande mi hanno fatto capire che nelle culture ci sono strati diversi, che non sempre collimano.
I BaNande da sempre sono abakondi, ma è come se questo essere abakondi avesse generato, più in ombra, dubbi e riflessioni che si vanno a collocare nel cuore della loro stessa cultura. Sintomi divergenti e scricchiolii in questa visione sommaria comparvero quando mi accorsi che il territorio nande era qua e là chiazzato da piccole foreste e quando venni a sapere che un tempo si lasciavano sopravvivere queste piccole foreste non solo per ricordare quanto c’era prima degli abakondi, ma perché esse erano i luoghi degli spiriti (evirimu) della foresta. Dire che la foresta ha i suoi “spiriti” è come sostenere che la foresta non è una realtà puramente materiale: essa ha una coscienza; la foresta “sa”.

E che cosa “sa” la foresta a proposito dei BaNande? La foresta sa di essere abbattuta da parte degli abakondi. C’è un detto dei BaNande che potremmo collocare al centro del loro pensiero ecologico, un pensiero che – come si vede – diviene particolarmente drammatico: Ovuli sivulirya omusitu atasi, «il mangiare non mangia la foresta senza che lei lo sappia».
Un po’ come dire che gli abakondi non distruggono del tutto la foresta: lacerata, mangiata, la foresta sopravvive sotto forma di una qualche coscienza.
E che cos’è questa coscienza se non la coscienza ecologica degli stessi BaNande? Una coscienza tormentata, come mi fecero capire alcuni anziani, mentre insieme contemplavamo dall’alto di una collina i bananeti e i villaggi tutt’attorno e alcune minuscole foreste sopravvissute negli avvallamenti: qui un tempo tutto era foresta e le loro parole proseguirono dicendo erivuyirira omusitu, siamo colpevoli di “avere sterminato la foresta”.
Del resto, quando ancora i ragazzi venivano portati in foresta per il rituale di iniziazione (ora non più), i circoncisori si rivolgevano alla divinità non con la sicurezza degli abakondi, ma con parole piene di dubbi antropologici e di inquietudini ecologiche: «In una casa, in una famiglia, in un villaggio, un uomo che cos’è?», per poi terminare il loro canto-preghiera con questi auspici e queste implorazioni: «Che il nostro viaggio generi degli uomini! O dio Katonda, insegnaci ad abitare queste colline».


Francesco Remotti interverrà domenica 8 ottobre, alle ore 10 presso l’Orto Botanico di Lucca al Pianeta Terra Festival, diretto da Stefano Mancuso, ideato dagli Editori Laterza, che si terrà a Lucca dal 5 all’8 ottobre.

Il tema è “La rete della vita” e guarda al nostro Pianeta con la consapevolezza che siamo un’unica sola vita perché è questo l’orizzonte in cui dobbiamo operare se vogliamo costruire un futuro solido e sostenibile.Tra gli ospiti: Paola Bonfante, Carlo Cacciamani, Alessandro Cinque, Irene Borgna, Elisabetta Erba, Umberto Galimberti, Piero Papik Genovesi, Yadvinder Malhi, George Monbiot, Chiara Pavan, Peter Wadhams e molti altri. Tutte le info: https://www.pianetaterrafestival.it/

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