L’idea di una letteratura nazionale implica una pericolosa contrapposizione fra gli scrittori africani “del dentro” e gli scrittori “del fuori”. Qual è la nazione letteraria di Salman Rushdie, di Vladimir Nabokov o del poeta David Diop (1927-1960), nato a Bordeaux e vissuto fuori dal continente ma considerato come una delle voci più potenti della Negritudine?

Fuori e dentro

L’autore africano “del fuori”, residente in Europa, viene generalmente percepito come un soggetto sconnesso dalla realtà. C’è il pregiudizio secondo cui, tagliato fuori dalle radici del continente, la sua visione del mondo sia in qualche modo falsata. Inghiottito dal sistema editoriale parigino, quello scrittore corrotto non si rivolgerebbe più ai suoi “fratelli e sorelle”, ma al suo “public de raison”, ovvero il suo pubblico occidentale, che gli detterebbe quello che deve scrivere: «Opere formattate per un pubblico occidentale», secondo le parole del giornalista senegalese Nabo Sene.

Al contrario, lo scrittore africano “del dentro”, che vive in Africa, sarebbe colui che incarnerebbe l’autenticità, la perennità dei valori e delle tradizioni. La sua lotta sarebbe quella di rifiutare le catene di una francofonia ritenuta causa di tutti i suoi mali.

Dovrebbe guardare al passato, valorizzare le proprie lingue, «scrivere senza la Francia», ritrovare «la mobilità laterale dei nostri antenati e dei nostri predecessori», mobilità laterale così cara a Patrice Nganang proprio nel momento in cui tentiamo di situarla sul piano degli scambi più vasti, sulla scia del “pensiero di bronzo” del poeta Tchicaya U Tam’si, dove ogni lingua ha sempre un chicco da beccare nel mangime dell’altra.

E anche in una prosa compiuta come quella del camerunense Gaston-Paul Effa o del ciadiano Nimrod – che vivono entrambi in Francia – vibra un ribollio di lingue che solo i sordi (o quelli che fanno finta di esserlo) non riescono a sentire…

Letteratura nazionale

Abbiamo bisogno di una letteratura “nazionale”, ovvero di una letteratura scritta nelle lingue africane? Certo che sì, quando quelle lingue vengono insegnate, permettendo al pubblico di accedere a un’altra letteratura. Tuttavia, la maggior parte degli scrittori francofoni dell’Africa nera parla nella propria lingua madre, ma ha difficoltà nello scriverla. Molte di quelle lingue sono rimaste allo stato dell’oralità. Le politiche di quei paesi devono prima di tutto avviare una riflessione sulle proprie lingue.

Ed è necessario pensare a una grammatica o, se già esiste, ripensarla, fondare delle accademie, sviluppare dizionari, creare giornali in quelle lingue, e insomma preparare il campo per passare dallo stadio dell’oralità – al quale l’Africa viene spesso ridotta – allo stadio dell’esigenza della scrittura, smettendola d’inorgoglirsi per il ruolo degli anziani nella trasmissione della cultura.

E non è certo vietato tradurre il libro di un autore africano di lingua francese in una lingua africana! I custodi del tempio, di Cheikh Hamidou Kane, è un romanzo scritto in francese e solo in seguito tradotto in wolof! Non si tratta solo di scrivere in una lingua africana, ma anche di preparare l’africano a leggere quella lingua proprio come si prepara il lettore francese, cinese o russo a leggere la propria.

I libri devono spaesare

Lo scrittore Alain Mabanckou (foto EPA)

In definitiva, etichettare una letteratura come “nazionale” finisce per consolidare alcuni pregiudizi riguardo i temi che si presume gli autori africani debbano affrontare. In quella letteratura ci sarebbero allora “elementi inevitabili”. Un vocabolario formattato e una truculenza che ci si aspetta sempre, quasi che qualunque africano debba esibire il colore locale, e stavo per dire il colore d’origine.

La stessa situazione riguarderebbe tutti gli ambiti della cultura: al cinema ci sarebbe perfino un colore specifico, nazionale, perfino africano; stessa cosa nella pittura, nella scultura, e così via. Lo scrittore nazionale sarebbe il cancelliere della sua nazione, il guardiano degli usi e costumi di quella nazione, e gli verrebbe indirettamente affidata una missione, quella di parlare del suo spazio, solo di quello, e qualora si discostasse da tale missione allora verrebbe perlopiù accusato di essere un nero che indossa una maschera bianca.

Diamo al mondo quello che ci circonda, e quello che abbiamo ricevuto. Siamo il prodotto dei nostri scambi, dei nostri spostamenti. Creare è ricomporre l’universo, dargli (o ridargli) una geografia, una storia, delle lingue. Nell’epoca in cui l’artista è mobile quanto l’opera che ha creato, non è più sorprendente constatare la presenza di un po’ di terra di Cuba mescolata con quella del Sudafrica o di una regione dell’Amazzonia.

Nello stesso modo in cui un libro ci “spaesa”, l’arte porta in sé un potere d’incanto atemporale. Una fotografia, un libro, un quadro o una scultura riflettono cosa siamo e cosa dobbiamo sapere dell’Altro. L’arte cancella le frontiere e lascia a chi contempla un’opera il compito di aggiungervi delle legende, e la lingua nella quale pensiamo diventa subito una questione secondaria. Quel che conta è la nostra attitudine a entrare in un universo, a farlo nostro, a leggere dietro ogni carattere, dietro ogni colore la trance dell’artista, e tale trance è universale…

L’urgenza del presente 

È vero che scrivere dopo il genocidio del Ruanda significa in qualche modo ripensare la condizione dello scrittore africano dalla fine degli anni Novanta ai giorni nostri, ma non è certo questione di stabilire una parola d’ordine che rovinerebbe la libertà dell’immaginazione dello scrittore e che gli assegnerebbe un ruolo d’imbrattacarte a tempo pieno. Si tratta invece di prendere coscienza del fatto che anche il presente è un’urgenza, e forse la più immediata delle urgenze, senza che ci si appiccichi addosso di continuo l’impressione dello scrittore recluso nella propria isola.

Scrivere dopo il genocidio del Ruanda significa che la letteratura africana in lingua francese, fin dalle sue origini, è stata mossa da uno slancio di contestazione, ognuno a modo suo, ognuno con la propria voce, ma guardando tutti verso una stessa direzione, quella che si ritiene restituisca dignità a un continente nero senza però per questo versare in un africanismo gregario, perché anche il mondo si apre, ricco dei suoi incroci e dei suoi incontri.

Cosa significa infine, per uno scrittore, per un artista, scrivere dopo il genocidio del Ruanda? Significa riproporre la questione del peso del pensiero e dell’immaginazione nelle turbolenze della politica africana attuale, che privilegia la cultura dello scontro e della divisione etnica nello stesso modo in cui lo facevano le vecchie potenze coloniali. È in questo senso che sostengo che la dittatura sopravvive grazie al latte che le è fornito dalle mammelle delle vecchie potenze coloniali.

La finestra aperta

Scrivere dopo il genocidio del Ruanda significa definire un atteggiamento lontano dalla contemplazione, lontano dalla marginalizzazione nella quale in Africa i politici recludono il creatore artistico, spingendosi fino ad affermare che gli scrittori dovrebbero pensare alla letteratura e lasciare che a occuparsi degli affari pubblici siano gli esperti di politica, con i risultati che sappiamo: guerre civili combattute nell’oscurità, come le atrocità che stanno avvenendo oggi a Beni, nella Repubblica democratica del Congo, o i ripetuti massacri commessi dall’esercito di Denis Sassou-Nguesso ai danni delle popolazioni della regione del Pool, a sud del Congo-Brazzaville e che, in fondo, sono anch’essi genocidi, perché se la prendono con popoli interi solo per quello che sono, per ciò a cui credono e per le loro origini…

Scrivere dopo il genocidio del Ruanda significa additare i disfunzionamenti nati dalla cultura della guerra, dalle politiche dell’inimicizia e dalle strategie messe in campo dagli attuali detentori del potere in Africa, che riducono i loro popoli in ginocchio senza rendersi conto di essere soltanto le marionette delle ambizioni delle vecchie potenze coloniali.
Nessuna guerra, nessun conflitto né nessuna tragedia in Africa può essere compresa e analizzata senza decostruire il legame coloniale, che ha lasciato impronte sempre più impercettibili, ma identificabili attraverso i comportamenti di quei governanti, la cui caratteristica principale è quella di aggrapparsi al potere attraverso il gioco delle modifiche unilaterali delle costituzioni e la soppressione della libertà di espressione, spesso con la benedizione della Francia.

Ma c’è una speranza, una finestra aperta dalla quale vediamo altri cammini. Sono percorsi che ci portano verso la ridefinizione della nostra condotta, con un’ultima raccomandazione: non aspettare più nella «sterile posizione dello spettatore» che le cose cambino da sole…

(da Otto lezioni sull’Africa di Alain Mabanckou, e/o) 


Da giovedì 28 settembre a domenica 1 ottobre 2023, appuntamento a Città di Castello con CaLibro Africa, il festival degli scrittori e delle scrittrici africani e afrodiscendenti: quattro giorni di incontri fra letteratura, musica e cinema.

Fra gli ospiti internazionali il vincitore del Prix Goncourt Mohamed Mbougar Sarr, il vincitore del Booker Prize Damon Galgut e la vincitrice del Nigeria Prize for Literature Cheluchi Onyemelukwe-Onubia. Fra gli ospiti italiani Igiaba Scego, Chiara Piaggio, Anna Maria Gehnyei, Ubah Cristina Ali Farah, Djarah Kan, Tommaso Giartosio, Pap Khouma, e molti altri. Non mancheranno una rassegna cinematografica a cura di Alessandro Jedlowski, e la sezione “Piccoli CaLibri” con laboratori e letture per bambini e bambine. Programma completo su calibrofestival.com.

«Le Edizioni E/O sono felici e orgogliose di unirsi quest’anno alla magnifica squadra di CaLibro per organizzare a Città di Castello il primo festival di letterature africane in Italia e anche uno dei primissimi al mondo», dichiara Sandro Ferri. Da anni la nostra casa editrice ha proposto al pubblico italiano autrici e autori straordinari dall’Africa, dimostrando la vitalità e l’originalità delle letterature di quel continente. Adesso avere molti di quegli autori in Italia, in una città e in un territorio ricchi di arte e cultura, è un segnale dell’apertura del nostro paese nei confronti della cultura africana. Aspettiamo dunque che accorrano al Festival CaLibro Africa tante persone desiderose di ascoltare le voci del continente africano in uno scenario di grande bellezza».

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