A ottant’anni suonati, Martin Scorsese non ha mai smesso di fare grandi film. Era un grande film, ad esempio, The Irishman. Una volta ogni dieci anni, però, il regista newyorkese si concede per soprammercato un capolavoro, ovvero un’opera che regge il confronto con le pietre miliari della sua filmografia, da Taxi Driver in giù. Meglio ancora: un’opera che getta una luce nuova su quella filmografia e la illumina di senso. Un decennio preciso dopo Wolf of Wall Street, ma sempre con Leonardo DiCaprio, Killers of the Flower Moon è quell’opera.

Bisognerebbe però capire che tipo di opera è Killers of the Flower Moon. Si tratta del racconto di un atroce caso di cronaca oppure di un affresco epocale su come i bianchi hanno rubato l’America agli indiani? È un western oppure un gangster movie? E se invece fosse un horror, a metà tra The Wicker Man, Rosemary’s Baby e Get Out? In queste ambiguità sta la sua forza e il suo senso. Da mezzo secolo Scorsese ci parla di piccoli delinquenti; ma solo ora osa dirci chiaramente che sono loro che fanno la storia.

Osage tribe

L’inizio del film è così straniante che, non conoscendo la storia, si potrebbe credere in un’ucronia: un passato alternativo in cui nel primo Novecento la tribù indo-americana degli Osage si era arricchita con il petrolio e faceva lavorare i bianchi al proprio servizio. DiCaprio, addirittura, come autista.
Invece quella a cui assistiamo è una storia vera dall’inizio alla fine: gli Osage furono davvero la tribù più ricca del paese, prima di farsi prendere tutto quanto. Perseguitati e massacrati dai coloni per tutto l’Ottocento, erano stati trasferiti in una riserva dell’Oklahoma; casualmente nei primi anni del Novecento questa landa desolata si era rivelata piena di petrolio, e così gli Osage iniziarono a ricevere lauti assegni per il suo sfruttamento; attirando così l’avidità dei bianchi, impegnati a spennarli in ogni modo e poi a ucciderli. Il fatto che non ne sappiamo nulla – ma soprattutto che spesso non sappiano nulla gli americani – è rivelatore, anzi è parte del problema, come suggeriranno le ultimissime parole del film.

Provocava lo stesso straniamento la serie Watchmen di Damon Lindelof, nel 2019. La prima puntata si apriva mostrando il massacro di Tulsa del 1921: capitolo oscuro della storia del suprematismo bianco, che la storia ufficiale aveva fatto di tutto per cancellare. I commenti online del pubblico americano mostravano, anche in quel caso, quanto poco fosse nota la vicenda (proprio come in Italia si tende a ignorare molte vecchie malefatte coloniali). Per questo, qui come altrove, intellettuali e attivisti hanno proposto di riattivare quella memoria, interrogando le zone cieche del passato, proponendo una revisione che coinvolge musei, manuali, toponomastica.

Scorsese insomma si inserisce in un filone recente che mira a aggiungere dei tasselli alla contro-storia dell’occidente, riesumando traumi sepolti in nome di un imperativo di giustizia memoriale. Un filone che, anche guardando questo film, porta lo spettatore a interrogarsi sulla possibilità che i tratti culturali che hanno portato i bianchi a prevalere nel monopolizzare la ricchezza delle nazioni siano l’avidità, la spregiudicatezza, diciamo pure la malvagità. In ogni luogo e in ogni tempo, i coloni sono spesso i “banditi” a cui la società delega il lavoro sporco. Ma è davvero il caso di generalizzare? Lo spettatore potrà valutare da sé il grado di “esemplarità” della vicenda narrata.

Nascita di una nazione

Anche perché a fare da contraltare a quei bianchi cattivi – impegnati in una strana lotta di classe con tinte suprematiste – ci sono altri bianchi più buoni, quelli al servizio dello stato federale. La “nascita dell’Fbi” è uno dei temi annunciati nel sottotitolo del libro di David Grann da cui è tratto il film (Gli assassini della terra rossa, Corbaccio).
Se Scorsese sbriga un po’ rapidamente questo pezzo della storia, riesce comunque a far passare il messaggio essenziale: è il processo di centralizzazione amministrativa che ha permesso di contrastare i contropoteri locali, spesso brutali e razzisti. Gli Osage avevano in effetti trovato sulla loro strada l’invidia e le dicerie dei bianchi, secondo cui (riporta Grann) gli indiani erano spendaccioni e possedevano ciascuno undici automobili.

Il cinema americano ha raccontato varie volte la storia di questa modernizzazione a partire degli anni 1960, ovvero negli anni delle lotte per i diritti civili. Lo ha fatto John Ford nell’Uomo che uccise Liberty Valance, mettendo in scena il conflitto tra forza e diritto. Lo ha fatto Roger Corman ne L’odio esplode a Dallas, descrivendo le resistenze di una comunità alle politiche federali di integrazione degli afroamericani.
E negli stessi anni lo ha fatto Il buio oltre la siepe, film feticcio di Scorsese se crediamo al suo Viaggio nel cinema americano, vivida descrizione dell’omertà nel sud degli Usa. Lo hanno fatto anche tanti gangster movie descrivendo città abbandonate alla malavita e alla corruzione. Per questo negli Usa spesso i libertarian coincidono con i razzisti: libertà da Washington ha spesso significato la difesa di ataviche logiche di potere rivolte contro donne e minoranze.

Eppure di tutta evidenza la buona volontà delle forze modernizzatrici non è bastata né a risolvere la questione afroamericana né a salvare gli indiani dal loro destino di marginalizzazione. Il libro di Grann racconta bene come, proprio mentre sviluppava l’apparato poliziesco che doveva proteggere (anche) gli Osage, il governo federale metteva sotto tutela legale (in base a sapienti calcoli sulla percentuale di sangue indiano) le loro rendite petrolifere e votava leggi per la lottizzazione delle terre che avrebbero reso più facile la loro spoliazione legale.

Chi fa la storia

Martin Scorsese non è nuovo alla rappresentazione degli ambienti della criminalità, che anzi ha fatto la sua fortuna. Dai tempi di Mean Streets e passando da Quei bravi ragazzi, la tenerezza del regista italoamericano per i suoi connazionali più avvezzi alla violenza è sempre stata caratterizzata da un fondo di ambiguità. Nel suo ultimo film come già in altri precedenti, sono gli irlandesi – sempre cattolici, in fondo – a far le veci della minoranza malavitosa tenuta coesa da un mix di familismo amorale e sete di arricchirsi.

Forse soltanto un italo-americano di Manhattan, testimone fin dall’infanzia della potenza strutturante dei legami comunitari, poteva cogliere con tanta lucidità il ruolo cruciale tenuto dalla malavita nel costruire la nazione americana. Era questa, in effetti, la grande idea alla base di Gangs of New York, che ritroviamo nella triade mafia-politica-sindacati descritta in The Irishman. In tutti questi film non sono mai grandi uomini a muovere i fili della storia, ma dei tizi un po’ scemi e sanguigni che hanno trovato nel crimine una rivalsa. Verità che aveva già fatto la forza di alcuni romanzi di Balzac, il cui eco si sente fino alle pagine di One Big Union, capolavoro americano di Valerio Evangelisti.

In Killers of the Flower Moon Scorsese si spinge oltre, facendo di un semplice caso di cronaca l’immagine frattale di una storia più grande, quella della conquista dell’America e del genocidio indiano. Il volto bonario di William Hale, interpretato da un Robert De Niro mai così luciferino dai tempi di Angel Heart, incarna la doppiezza di una comunità che, nel proteggere i suoi membri, semina morte attorno a sé.

A questa attiva violenza fa da contraltare la passività degli indiani, che a un certo punto cessano di essere i soggetti della propria storia. Killers of the Flower Moon suggerisce, attraverso il personaggio malinconico di Molly, che la semi-estinzione degli Osage sia stata anche una quieta accettazione del destino.
Fin dalle prime scene di flirt col futuro marito, nello sguardo da Monna Lisa della vittima leggiamo la lucida consapevolezza della trappola in cui si sta cacciando. Ed è questo forse l’elemento più enigmatico e perturbante del film, che potrebbe valere un oscar (riparatore?) all’attrice Lily Gladstone.

© Riproduzione riservata