Colpisce che un pittore tailandese, Natee Utarit, abbia affrontato il tema del mito di Medea realizzando un’opera di grande formato, costituita da tre pannelli, ciascuno di due metri e mezzo per uno e mezzo. L’olio su tela, dal titolo Two Boys and the Sacrifice, rappresenta una scena del crimine in un interno borghese che saremmo lontani da associare a un infanticidio.

Nel pannello di sinistra un bambino è disteso a terra e mostra i segni di un taglio alla gola con evidenti tracce di sangue. Da una porta socchiusa si scorgono le gambe di un altro bambino. A ricondurre la scena alla tragedia di Euripide è la raffigurazione, nel pannello centrale del trittico, di un dipinto di Charles-André Van Loo, Giasone e Medea del 1759 e di una statua su un tavolo, che riproduce una scultura del 1865 dell’artista americano William Wetmore Story. Nel pannello di destra i tagli di un quadro blu di Lucio Fontana non si propongono di superare l’illusione prospettica della profondità, ma rinviano alle ferite mortali inferte da Medea ai figli.

Il lavoro di Utarit, presentato nella mostra Medea, curata a Siracusa presso l’Antico Mercato da Demetrio Paparoni, coglie la dimensione di perenne attualità del mito e ci consente al tempo stesso di riconoscere in quella casa, apparentemente tranquilla, una manifestazione del Perturbante. Ciò che abbiamo considerato familiare si trasforma allora nel suo opposto, assumendo un volto mostruoso.

Utarit è solo un esempio del modo in cui 17 artisti, provenienti da diverse parti del mondo, di cui solo cinque italiani, hanno affrontato questo tema su invito del curatore. Come ha commentato il neuroscienziato Lamberto Maffei visitando la mostra, il confronto di punti di vista così lontani, geograficamente e culturalmente, potrebbe rappresentare un esempio da seguire nell’ambito di un dialogo fra i saperi. 

«Potenza irrappresentabile»

Ogni anno, dal 1914, l’Istituto nazionale del dramma antico mette in scena in primavera nel teatro greco di Siracusa le opere della drammaturgia classica. La rappresentazione di Medea, quest’anno nell’allestimento del regista Federico Tiezzi, ha fornito lo spunto all’amministrazione comunale per promuovere una mostra d’arte contemporanea in cui il mito della regina della Colchide potesse prender forma nel linguaggio del nostro tempo.

In uno dei saggi ospitati in catalogo, Tiziano Scarpa scrive che Medea incarna una «potenza irrappresentabile e ob-scena». La sua scelta di infrangere un tabù, uccidendo i figli, non può infatti manifestarsi sulla scena. Se per gli antichi, come si legge nell’Ars poetica di Orazio, il suo gesto può essere raccontato ma non mostrato, commenta Scarpa, per noi diviene un elemento precorritore del genere horror, un genere che nel mondo antico non si offriva allo sguardo. Si pensa infatti che le tragedie di Seneca, nelle quali i cultori dell’horror potrebbero trovare tanti spunti, erano forse destinate solo alla lettura e non alla rappresentazione.

Nel testo di Euripide emergono questioni che segnarono fortemente la politica e l’esistenza di donne e uomini della polis ateniese, luogo-simbolo della democrazia dell’occidente, ma anche espressione di una cittadinanza poco incline all’inclusione. Temi ben presenti nella società contemporanea. Basti pensare a quanti invocano una rigida difesa dei confini dinnanzi a un fenomeno che, come quello migratorio, non può essere considerato in termini emergenziali. Si tratta infatti di spostamenti di popolazioni causati da guerre, crisi economiche, sconvolgimenti climatici, come dimostrano le tragiche odissee di chi si incammina lungo i Balcani o di chi solca il Mediterraneo affrontando rischi incalcolabili. Ecco perché le politiche securitarie non possono costituire una risposta a tutto questo.

Grecità e barbarie

In Medea il contrasto tra le passioni e la ragione si intreccia con il conflitto tra grecità e barbarie, tra la condizione femminile e una società radicalmente androcentrica, i cui principi erano solidamente radicati non solo nel pensiero comune e nella vita civile, ma anche nel più elevato pensiero filosofico. 

Nell’anima, scriveva Aristotele nella Politica, vi è una parte che comanda e un’altra che è comandata. Lo schiavo non possiede del tutto la funzione deliberativa, la donna, pur possedendola, non ha l’autorità di affermarla e il ragazzo, infine, non è in grado di assumere decisioni consapevoli. La completezza delle virtù morali, necessaria per il governo della polis e della famiglia, è una prerogativa esclusivamente maschile. Se nell’uomo prevale «il coraggio del comando», prosegue Aristotele, la donna si caratterizza per la sua subordinazione.

Ma la subordinazione non si addice a Medea, che si impone con forza proprio contro l’ordine maschile, un ordine contro cui oggi, ad esempio, si battono le donne iraniane che, affrontando una dura repressione, rifiutano la sottomissione rappresentata dal velo e dalle leggi liberticide.

Nel confronto con Medea, Giasone, con arte sofistica, non intende riconoscere il suo ruolo nella conquista del Vello d’oro e la accusa di ingratitudine per non volere ammettere che a lei, donna barbara, è stato concesso di vivere in Grecia, in un paese governato dalle leggi e non dominato dall’arbitrio e dalla violenza. L’elemento barbarico e ferino che egli le attribuisce sarà poi rivendicato dalla stessa Medea quando, alla fine della tragedia, gli urlerà che potrà anche chiamarla leonessa. Viene in mente, a proposito di metafore ferine legate ai personaggi femminili della tragedia classica, l’espressione «bipede leonessa», rivolta da Cassandra a Clitennestra nell’Agamennone di Eschilo. 

L’irrazionalità delle pulsioni

Nella Poetica Aristotele attribuisce a Medea la piena consapevolezza nell’atto di uccidere i figli. Il suo gesto, oggi evocato da medici e sociologi ogni volta che ci si trova dinnanzi a tragici casi di infanticidio, attirò anche nel mondo antico l’interesse della scienza medica.

Galeno, in contrasto con gli stoici, secondo i quali il Logos era presente in tutti gli uomini, sosteneva in De placitis Hippocratis et Platonis, che mentre nei greci la ragione signoreggiava sull’istinto, nei barbari, e dunque anche in Medea, era l’irrazionalità delle pulsioni a prevalere.

Medea è cosciente del misfatto che sta per compiere, ma sa anche che «il furore dell’animo che spinge i mortali alle più grandi colpe» è in lei più forte di ogni volere. L’intenzione di distruggere l’avversario, che costituisce il sentimento dominante, si traduce inevitabilmente in una forma di autodistruzione, come emerge nel lavoro di Rupert von Kaufmann Medeas Erben, in cui l’artista tedesco dà immagine ai pozzi petroliferi incendiati da Saddam Hussein durante la Seconda guerra del Golfo per evitare che gli americani se ne impossessassero. Come dire che l’autodistruzione può manifestarsi in un comportamento individuale, ma può anche esprimersi nelle relazioni conflittuali fra i popoli e gli stati.

Ripensare la tragedia di Euripide in un mondo multipolare, ci induce ad aprirci alle ragioni degli altri senza pretendere di imporre il nostro Logos. L’artista filippino Cian Dyrit, in Neither Created Nor Destroyed, vede in Medea il simbolo della rivolta contro il potere che oggi prende corpo nel dominio globale dell’economia sulle risorse del pianeta e sui popoli. La sua opera in mostra, un arazzo, vuole prospettare un mondo in cui sia possibile ritessere una trama di relazioni in grado di superare le disuguaglianze e di realizzare una cittadinanza universale.

Euripide critica una concezione della cittadinanza che esclude la straniera Medea e che può indurre Giasone alle nozze con una donna greca per garantire una discendenza dignitosa ai suoi nuovi figli. In precedenti versioni del mito i bambini venivano uccisi dai cittadini di Corinto proprio in quanto estranei alla polis.

Euripide intende mostrare le conseguenze estreme e tragiche che potevano derivare dalla legge periclea del 451 a. C., secondo la quale erano privati della cittadinanza quanti non fossero nati da entrambi genitori ateniesi. Si relegavano così in una sorta di limbo civile i figli di coppie “miste”, causando terribili lacerazioni nelle famiglie.

Un tema, questo, che in forme diverse possiamo sentire vicino ogni volta che ci troviamo di fronte a una concezione rigida di cittadinanza. Assolutizzare uno status e una concezione del mondo rischia di alimentare lo scontro di civiltà. Potremo superarlo solo se un ethos del dialogo prevarrà sulla logica egemonica. La Medea di Utarit e le altre Medee nella mostra curata da Paparoni si muovono in questa direzione. Prendono infatti le distanze da chi teme un improbabile progetto di “sostituzione etnica”  e dall’ossessione identitaria  di quanti pretendono di ridurre arbitrariamente la pluralità e il confronto fra le culture a una gerarchia razziale priva di fondamento.

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