L’attacco all’informazione da parte di un governo è una cosa seria. Qui non interverremo sulla querela della presidente del Consiglio contro il Domani, che in sé potrebbe essere una cosa singola, anche piccola.

Ma non possiamo non vedere il contesto in cui questa querela si svolge. E il contesto è il comportamento di disprezzo di Giorgia Meloni per la stampa, disprezzo che ha dimostrato, non una sola volta, ma con un percettibile crescendo di gesti nelle conferenze stampa, dimostrando di sentire la partecipazione dei cronisti con insofferenza, come un passaggio di inutilità, a cui ammette apertamente di riservare «poco tempo». Certo non dice “mi avete rotto le scatole”, ma ci va vicina.

Ora il punto da chiedersi è quale sarà la reazione. La stampa, non solo quella parlamentare, è pronta a reagire? Non facendo l’Aventino, ma ponendo il problema: se la presidente del consiglio non dà la possibilità ai cronisti di fare le loro domande, belle o brutte che le paiano, vorrà dire che alle conferenze stampa non ci saranno più i giornalisti? Preferirebbe che le fosse mandato uno stenografo?

L’origine delle violenze

Il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano, nella sede del Circolo dell'Alleanza Industriale, con il sostegno del sindacato dei commercianti e degli esercenti, nasce il primo movimento dei fasci. Venti giorni dopo, il 15 aprile, viene assaltato l’Avanti, il quotidiano dei lavoratori, da squadre di fascisti, nazionalisti e futuristi che trovano nel simbolo della stampa e della informazione il primo obiettivo da demolire per introdurre un sistema di violenza antidemocratica.

Fu distrutta la redazione e la tipografia. Di lì nascono tutte le violenze successive, fino ai delitti politici, e tutte le altre forme di limitazione e di liquidazione e demolizione delle condizioni di sviluppo democratico del paese. 

L’attacco di oggi è un segnale. Siamo a una svolta del governo delle destre. Dovrebbe provocare la separazione fra gli spiriti liberali e il regime.

È giunto il momento di staccare le coscienze liberali nella destra politicamente ancora sommersa?
È una domanda che va rivolta a chi dovrebbe fare la resistenza all’avanzata di un regime illiberale. Perché la debolezza della reazione nasce da una mancata analisi della sconfitta del 25 settembre. Quando vi è una sconfitta così clamorosa, le colpe  non sono solo da assegnarsi alla prepotenza dell'avversario.

L’opposizione divisa non ha la forza politica che possa aprire delle falle vere  nella maggioranza di destra. A destra, a sua volta, quando si dice “ dobbiamo costruire un partito conservatore” si mente. E lo si fa, lo si può fare, perché dall’altra parte c’è  chi non ha la memoria e la cultura per replicare che in Italia i conservatori democratici non ci sono mai stati.

Conservatori reazionari

I conservatori sono sempre e solo stati reazionari. Con Bava Beccaris, nel 1898, avviene la saldatura fra il potere della forza e il potere politico contro il potere democratico della partecipazione. È lì, ben prima del ventennio, che sorge per la prima volta il fascismo.

Oggi noi siamo al primo attacco all’informazione. E se ora non si aprirà  questa battaglia, la svolta è segnata. 

Ma la battaglia sul piano politico non si vede. Le restrizioni alla libertà di stampa sono tollerate, si procede senza scossoni verso lo stato di gestione illiberale della società, che naturalmente avrà le sue conseguenze nella politica, nella politica economica, in quella internazionale e nelle relazioni umane.

La cosa che si vede invece è la debolezza delle opposizioni, e di questo Pd che non si deve sciogliere, come pure ha chiesto questo giornale, ma si è già sciolto e ricostituito.

I garanti del nuovo Pd sono Enrico  Letta e Roberto Speranza: i due sconfitti politici protagonisti della scissione e della riunificazione del campo della sinistra. Sarebbero loro quelli che dovrebbero condurre la battaglia contro lo scivolamento verso l’indivisibilità del potere, ma invece di essere il potere costituente che agisce contro il potere costituito, sono anche loro potere costituito che si perpetua.

Così rischia di vincere la novità antica della restaurazione che rappresenta la distruzione della modernità. La democrazia è il principio della divisibilità del potere, che si allarga alla partecipazione, l’autoritarismo è l'indivisibilità del potere. La Repubblica è  stata la modernità. 

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