A quasi ottant’anni dalla riconquista della libertà di parola, espressione e associazione, ci troviamo a dover studiare l’ABC di questa libertà, quasi che, nel praticarla generazione dopo generazione, ne abbiamo smarrito il senso.

Nulla di nuovo sotto il sole, perché la pratica reiterata trasforma i diritti in abiti comportamentali. La norma si fa costume, con il rischio che mentre si consolida perde la forza che le viene dalla volontarietà. Si radica, ma il suo valore si appanna: liberi per inerzia.

Certo, l’abitudine è importante, poiché non si può essere permanentemente in lotta per la libertà. Proprio per questa ragione, i diritti di libertà, conquistati lottando, non sono mai sicuri una volta per sempre. Un detto comune è che la libertà è come l’ossigeno: ci si accorge di essa quando viene meno. Il processo di debilitazione può essere lento: le democrazie hanno in sé il rischio di decadimento.

La voce e la forza

Questa introduzione ci aiuta a leggere l’attuale stato delle democrazie occidentali. I cittadini sono così abituati ai diritti da pensare che le istituzioni bastino a difenderli, che essi non debbano fare molto, se non forse (e sempre di meno) andare a votare. Col tempo, l’abitudine rinsecchisce il sentimento di libertà.

Ciò lo si vede quando, come in questi giorni è capitato di sentire, si confonde il senso di che cosa sia e chi possa esercitare il diritto di pubblica espressione di critica, e di che cosa sia e chi possa esercitare la coercizione.

Ecco dunque che la contestazione con cartelli, cori scanditi e rumore alla ministra per la Famiglia, Eugenia Maria Roccella, agli Stati generali della natalità, per la sua politica di ostruzionismo all’applicazione della legge 194 che regola il diritto di interruzione di gravidanza, ha fatto dire a molti, non solo quelli vicini alla maggioranza, che la ministra ha subito coercizione e che quei giovani non erano democratici perché la democrazia non vuole grida e contestazioni, ma sussurri e dialoghi pacati.

Davvero strana idea questa, che sembra ignorare le relazioni di potere: solo un ministro ha in mano gli strumenti della coercizione. La quale non consiste nella voce che copre la voce, ma nell’impedimento coercitivo della voce, con la repressione e/o la sanzione. Per esempio, chiamando le forze di polizia in tenuta antisommossa. I cittadini tolgono il volume alla voce di un ministro, il quale ha dalla sua il potere di un’arma che invece la voce non ha: la forza.

Come nel campus della Columbia University e poi a Roma, sempre in occasione degli Stati generali della natalità: manganelli e repressione violenta contro le parole di opposizione. L’ordine che muove la coercizione è politico. Viene dal ministro competente e riflette l’indirizzo del governo che assegna all’ordine silenzioso una priorità valoriale.

È democratico che i cittadini che si oppongono a una politica cerchino di contestarla pubblicamente. Del resto, come si può credere che un governo cambi la propria politica dialogando con i cittadini fuori delle istituzioni?

Se neppure l’opposizione istituzionale (parlamento) ha la forza di cambiare una politica, figuriamoci i cittadini! La democrazia costituzionale si distingue dai regimi autoritari perché non teme le contestazioni e, anzi, ne riconosce il diritto e il valore di stimolo, espressione non violenta delle idee scandite a voce alta, in pubblico, affinché anche i concittadini che assistono a distanza vengano informati e sensibilizzati.

Contestare è parte dell’azione complessa della formazione democratica dell’opinione pubblica.

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