Non si tratta solo dell’Ungheria. La presa di Viktor Orbán sui media, la sua capacità di soffocare il pluralismo, va oltre i confini del paese da lui governato: si espande sia a sud che a nord di Budapest. Il premier è considerato l’ispiratore delle mosse del governo polacco per mettere a tacere le voci indipendenti.

E la sua influenza non si riduce alla proposta di un modello replicabile: in paesi come Slovenia e Macedonia del Nord, l’Ungheria interviene a colpi di acquisizioni nel panorama mediatico locale. «Ladies and gentlemen, quel che accade in Ungheria va interpretato come un tentativo di armonizzare gli interessi individuali con quelli della nazione», ha detto Orbán nell’estate 2014, durante il discorso annuale di Tusványos in Romania. «Il nuovo stato che stiamo costruendo è illiberale». Non una semplice arringa, ma un manifesto d’intenti rivolto anche agli altri paesi dell’area. Si può dire che il piano di Orbán stia riuscendo.

La rana e il potere

Il report annuale del Centro europeo per il pluralismo e la libertà dei media (Cmpf) è appena uscito. La sezione sull’Ungheria rileva che nel paese l’indipendenza dei media dalla politica è ad alto rischio (al 78 per cento) e che anche il pluralismo è gravemente compromesso (all’82 per cento). Chi sfoglia questi dati di anno in anno non si stupisce, ma una novità c’è: la situazione peggiora. «Passo dopo passo, la libertà è sempre meno», dice da Budapest Attila Bátorfy, che oltre ad aver stilato il report è nel team investigativo di Atlatszo. Per spiegare la situazione nel suo paese, ricorre a una metafora usata anche da Noam Chomsky nel descrivere i rapporti tra media e potere: «Ciò che Orbán ha fatto con la libera informazione è cuocerla a puntino, come una rana che invece di essere gettata subito nel pentolone di acqua bollente viene stordita lentamente a una temperatura sempre più micidiale».

Strategia di annientamento

Come fa il premier ungherese a bollire, cioè a stroncare, il pluralismo dei media? Senza spargimenti di sangue – zero giornalisti uccisi, tiene il conto Reporters without borders, che di anno in anno relega l’Ungheria in una posizione peggiore nella graduatoria globale della libertà di stampa – e molto spesso senza neppure sporcarsi le mani direttamente. Per lui agisce il suo cerchio magico: oligarchi, imprenditori compiacenti, prestanome. I soldi sono la parola chiave per controllare i media. Ci sono i finanziamenti pubblici dirottati sulla propaganda governativa. C’è il controllo del potere politico sul sistema economico, che si traduce nella cooptazione dei magnati che operano nel settore e che fa sì che le concessioni pubblicitarie confluiscano solo verso testate compiacenti. Dal 2010, l’anno in cui Orbán è tornato al governo, i media sono caduti nella sua rete come caselle del domino.

Tabula rasa

Nel 2010 una legge ha dato il via alla colonizzazione del governo sui media pubblici, e ha trasformato il garante dell’informazione in una longa manus del governo. Sei anni dopo, il più importante quotidiano di opposizione, Népszabadsag, è finito vittima di un prestanome, Heinrich Pecina, che prima lo ha rilevato e poi lo ha fatto collassare. Un «modello ungherese» da export: così definisce l’operazione nel 2017 Heinz-Christian Strache, l’allora leader dell’estrema destra austriaca. Nel 2018 nasce Kesma: gli oligarchi vicini al governo cedono il loro portafoglio di azioni nel settore mediatico a questa fondazione, convogliando così tv, giornali e radio in un solo colosso. Kesma diventa un gigante. È una concentrazione senza precedenti di media filogovernativi. Nel frattempo le testate libere chiudono i battenti o peggio ancora vengono trasformate in organi di propaganda, come è accaduto al portale Origo. A inizio 2021, una delle ultime emittenti radiofoniche indipendenti, la budapestina Klubrádió, ha dovuto rassegnarsi a sopravvivere solo online: il garante, emanazione del governo, l’ha privata della licenza.

Reduci, ribelli, spiati

Molte storie cominciano con un oligarca vicino al premier che assume la proprietà di una testata, o della sua concessionaria pubblicitaria, come è successo l’estate scorsa al sito indipendente Index con l’oligarca Miklos Vaszily. Ma in quel caso la redazione si è ribellata, ha fondato Telex, e tiene duro grazie al supporto dei lettori.

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Di voci libere che resistono, ce ne sono ancora. Ma la pressione del governo per annientarle è costante. Si avvale di ogni mezzo, spionaggio incluso. Lo scandalo Pegasus lo dimostra.

«Non sono certo l’unica vittima ungherese del software-spia», dice Szabolcs Panyi, reporter di Direkt36, che con le inchieste sul cerchio magico di Orbán, sulle sue connessioni con Mosca e Pechino, ha attirato le attenzioni del premier. «Tra gli spiati ci sono colleghi, avvocati, oppositori, il proprietario di un media non allineato». Il tycoon in questione è Zoltán Varga, la sua testata è 24.hu. Da tempo la reputazione del magnate è presa di mira da blog e media filogovernativi: Varga denuncia che «mi discreditano, fanno di tutto per mettermi nell’angolo».

L’espansione

Da almeno quattro anni, il cerchio magico del premier opera anche nei paesi in cui Orbán ha alleati, tanto più se sono in difficoltà. Imprenditori come Peter Schatz acquisiscono e finanziano media locali in paesi come Slovenia e Macedonia del Nord. A Lubiana, Nova 24, la tv finanziata da capitali ungheresi, è nata per essere in linea con il premier sloveno Janez Janša e ospitare le sue interviste.

Le operazioni ungheresi in questi paesi non sono solo esempi di soft power: le indagini delle autorità anticorruzione hanno messo in luce l’opacità di alcune di queste transazioni. Un gruppo di eurodeputati progressisti ha persino denunciato che «i leader ungheresi, avvalendosi di banche slovene, hanno messo in piedi un’operazione di intelligence politica. Supportando i media legati al partito nordmacedone di opposizione Vmro-Dpmne – alleato di Orbán – hanno tentato di silurare il primo ministro Zoran Zaev».

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