Se non fosse che tra leader ci si sta accordando, nell’osservare quel che è successo questo lunedì a Roma e a Bruxelles si potrebbe avere l’illusione ottica che ci sia una strategia per spaccare i sovranisti: pacche sulle spalle a Giorgia Meloni, ceffoni al suo amico Viktor Orbán. In realtà Bruxelles non li sta affatto separando – semmai l’esito sarà opposto – e tantomeno c’è una strategia a tale scopo. C’è semmai una frenesia elettorale, anche da parte dei nomi di punta dell’Ue, in vista di giugno.

A ogni modo i fatti che si sono svolti in parallelo sono questi: a Roma questo lunedì, durante la conferenza Italia Africa, i massimi vertici dell’Unione europea hanno blandito e assecondato Meloni, citando in coro il fumoso Piano Mattei e non risparmiando complimenti. E mentre tutto ciò accadeva, su un altro fronte e in vista del Consiglio europeo di giovedì, sempre dalle istituzioni europee, sono partiti segnali tempestosi in direzione dell’Ungheria, che finora aveva tenuto in ostaggio il bilancio, i soldi per Kiev e l’ingresso della Svezia nella Nato, suscitando l’irritazione dell’amministrazione statunitense.

La corte di «Giorgia»

«Cara Giorgia, sono molto grata all’Italia perché mette la cooperazione con l’Africa al centro. Il nuovo Piano Mattei è un contributo importante per questa nuova fase della nostra collaborazione». Quando Ursula von der Leyen, presidente di Commissione Ue, interviene a palazzo Madama, le sue parole hanno due mire che convergono: fare eco alla propaganda meloniana, e ribadire le parole chiave della campagna per le europee. Ad esempio, quando von der Leyen insiste sulla lotta ai trafficanti di migranti, sta – come fa spesso – ribadendo le parole chiave di Meloni, e sta anche facendo convergere le narrazioni dei suoi popolari con quelle dei meloniani.

Von der Leyen non è venuta a Roma perché il Piano Mattei ha coinvolto tutti i paesi dell’Ue, né perché sono state democraticamente concordate a Bruxelles iniziative congiunte. È corsa a Roma per le stesse ragioni per le quali è stata due volte in Emilia-Romagna, un’altra a Lampedusa, ed è andata con Meloni a Tunisi. Pure nel discorso romano peraltro ha citato il fantomatico «team Europe», espediente che le era servito col memorandum tunisino per saltare il normale iter democratico e spingersi in avanti con Meloni e Rutte.

È ormai palese che von der Leyen – pensando al proprio futuro post europee – copre le spalle politicamente alla premier. Quanto a Roberta Metsola, che questo lunedì ha «espresso gratitudine a Meloni e Tajani», non solo è nota la sua amicizia con FdI, ma la sua stessa elezione a presidente dell’Europarlamento simboleggia l’alleanza tra popolari e conservatori. E Charles Michel? C’era anche il presidente del Consiglio europeo, al summit italo-africano, e rivestiva di una confezione europea l’operazione di Meloni.

Segnali ungheresi

Ma Michel ha anzitutto l’urgenza di risolvere un accordo per giovedì: a dicembre il premier ungherese ha sbloccato i negoziati con Kiev ma bisogna ora far passare il bilancio. Meloni si pone come pontiere per sfruttare i suoi rapporti con Orbán a proprio vantaggio. Budapest, che ha già ottenuto dieci miliardi col compromesso di dicembre, nel weekend si è detta disposta a far passare i 50 miliardi per Kiev ma un po’ alla volta così da poter giocare il proprio potere di veto in più occasioni. «Chiediamo la possibilità di cambiare idea dopo», per dirla con gli orbaniani. Intanto gli Usa sono furenti perché l’Ungheria ha tenuto fermo l’ingresso della Svezia nella Nato, e il premier ungherese ha da render conto anche al presidente russo.

Così questo lunedì sono partiti fulmini: il Financial Times ha rivelato che il Consiglio ha studiato anche scenari di ritorsioni economiche contro l’Ungheria; più un’arma negoziale, ma è bastata perché i mercati reagissero dando un segnale a Orbán. Prima ancora, era filtrata un’idea dei governi di attivare l’articolo 7, che in realtà non hanno mai inteso attivare. In fretta, al parlamento ungherese l’opposizione ha chiesto di calendarizzare Svezia e Nato. C’è da scommettere che un accordo verrà trovato, e Meloni potrà rivendicare di averlo facilitato.

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