Trentanove ore: è il tempo che la giornalista d’inchiesta Ariane Lavrilleux ha dovuto trascorrere tra le sbarre, privata di acqua, privata delle sue medicine, in preda ad attacchi di diarrea.

Neanche un giorno: è il tempo che separa questo episodio da quello che riguarda tre giornalisti di Libération. «Assieme ai miei colleghi Ismaël Halissate e Antoine Schirer, giovedì sono stato convocato dalla polizia. Volevano conoscere le fonti di un nostro articolo che racconta in che modo la polizia ha ucciso un ragazzo», racconta a Domani Fabien Leboucq, reporter di Libération.

In appena una settimana la Francia – la nazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo – è apparsa risucchiata dentro un’epoca scura. In realtà quella che i francesi chiamano «la Macronie» – e cioè il sistema di potere macroniano – si sta da tempo colorando di nero.
È il colore della repressione, della rincorsa a destra, del bavaglio ai giornalisti, delle violenze della polizia. Emmanuel Macron lancia gli “stati generali dell’informazione” negli stessi giorni in cui il segreto delle fonti giornalistiche, e i giornalisti stessi, vengono presi d’assalto. Il presidente francese si professa liberale, e sempre di meno lo è.

39 ore

Se è stato possibile questo, tutto diventa ormai possibile: così Ariane Lavrilleux comincia il suo resoconto delle 39 ore più lunghe della sua vita. «Tutto è iniziato alle sei del mattino di martedì, quando degli agenti dell’intelligence nazionale e dei magistrati che in teoria si occupano di antiterrorismo sono piombati a casa mia». Hanno perquisito, hanno setacciato gli strumenti di lavoro della giornalista che lavora per il portale di inchieste Disclose.

Non hanno risparmiato nulla del materiale informatico: chiavette usb, computer, telefonini… «E hanno usato strumentazioni di cybersorveglianza per estrarre il mio materiale, i miei dati», racconta Lavrilleux in una testimonianza che ha diffuso in video per darne ampia divulgazione.

Poi la giornalista è stata trasferita da casa sua al commissariato di Marsiglia, dove è stata messa dietro le sbarre. Trentanove ore, notte compresa, in stato di fermo e in condizioni pietose: «Stavo male e avevo bisogno di prendere farmaci contro la diarrea ma non me lo hanno consentito, dicevano che non avevo la ricetta. Sono stata lasciata anche senza acqua. Quella notte mi ha davvero messa a dura prova», dice la giornalista.

Servizi segreti

Poi, dopo una notte stremante, Ariane Lavrilleux è stata sottoposta alla sfilza di domande della Direction générale de la Sécurité intérieure (Dgsi), che è un servizio di intelligence e che dipende dal ministero dell’Interno a guida Gérald Darmanin.

A più riprese, gli agenti dei servizi la hanno interrogata sul suo lavoro di giornalista, sulle inchieste sue e dei suoi colleghi di Disclose. «La Dgsi recrimina alla nostra collega di aver firmato una serie di inchieste sulla vendita di armi da parte della Francia a regimi autoritari», chiarisce la redazione. Inchieste di interesse pubblico, tantopiù che queste strumentazioni militari «sono state usate contro civili», e che – questa è la recriminazione dell’intelligence – si reggono su documenti riservati.

Ariane Lavrilleux ha opposto alle domande il suo silenzio, ancorandosi alla regola aurea del giornalismo – e in teoria, anche del diritto – per cui la segretezza delle fonti va tutelata: la fonte deve poter denunciare abusi senza rischiare di subirne.

Ma nel frattempo nelle 39 ore di reclusione ha scoperto dal giudice che era sotto sorveglianza da ben prima. E due giorni dopo l’irruzione a casa di Lavrilleux per succhiarle via tutti i dati, un ex soldato francese è stato incriminato perché considerato la fonte della giornalista nel suo scoop su “Sirli”.

A novembre 2021, Ariane Lavrilleux ha rivelato che dal 2016 – sotto le presidenze di Hollande e di Macron – la Direzione dell’intelligence militare stava conducendo un’operazione segreta nel deserto occidentale egiziano, operando al servizio di al Sisi. I documenti riservati sui quali si poggiava l’inchiesta dimostravano che questa operazione segreta veniva utilizzata dall’Egitto per bombardare civili.

L’amore per gli autocrati

«Certo che è davvero inquietante», commenta Agnes Callamard di Amnesty France: «Dopo le rivelazioni secondo le quali la Francia sarebbe complice di esecuzioni extragiudiziali in Egitto, viene presa di mira la giornalista invece che i presunti responsabili!».

Proprio come l’operazione Sirli, che Lavrilleux ha rivelato nel 2021, anche i rapporti più che cordiali con al Sisi sono proseguiti indefessamente prima con Hollande, poi con Macron. Nell’aprile 2016, quando Regeni era stato ucciso da poco, Hollande era volato al Cairo per rafforzare i rapporti tra i paesi. Nel dicembre 2020, Macron ha accolto al Sisi all’Eliseo con il tappeto rosso nel pieno della repressione in Egitto; al presidente egiziano ha pure concesso la legione d’onore, tacendolo all’opinione pubblica.

Ora, a settembre 2023, la giornalista che ha contribuito a denunciare i rapporti ambigui che sotto traccia si sviluppavano tra i due paesi si è ritrovata due giorni tra le sbarre: come dice la redazione di Disclose, «è stata usata una procedura di eccezione per identificare le nostre fonti e minacciare gravemente la libertà di stampa».

Una quarantina di redazioni – da le Monde ad AFP, passando per le Figaro e France Info – si è unita per esprimere supporto a Lavrilleux e per lanciare l’allerta: «Qui è in pericolo la nostra stessa professione», recita l’appello.

«L’arresto della nostra collega nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria aperta per atti di “compromissione della segretezza della difesa nazionale” e “rivelazione di informazioni che potrebbero portare all’identificazione di un agente protetto”, a seguito di una denuncia presentata dal ministero delle Forze armate, rappresenta un attacco senza precedenti alla tutela della riservatezza delle fonti dei giornalisti, che costituisce una delle “pietre angolari della libertà di stampa”, secondo le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo».

La polizia da Libération

Anche Libération ha sottoscritto l’appello. E nel giro di poche ore dal fermo della giornalista di Disclose, pure i giornalisti di Libé hanno vissuto sulla loro pelle l’attacco alla segretezza delle fonti e alla libertà di informazione.

«Giovedì io e i miei colleghi Ismaël Halissate e Antoine Schirer siamo stati convocati dalla polizia», racconta a Domani Fabien Leboucq di Libé. «Nel quadro di un’inchiesta per violazione di segreto istruttorio, i poliziotti volevano conoscere le nostre fonti per l’articolo da noi pubblicato a inizio estate, che raccontava come un giovane uomo fosse stato ucciso dalla polizia».

Con il loro lavoro i tre reporter hanno fatto luce non solo sulla morte di Amine Leknoun, avvenuta per mano di un poliziotto nel 2022 a Neuville-en-Ferrain, ma pure sul carattere a dir poco lacunoso degli accertamenti svolti dal servizio di ispezione della polizia, e dal giudice istruttore.

«Io e i colleghi ci siamo rifiutati di rispondere alle domande sulle nostre fonti, ora non sappiamo cosa succederà», dice Fabien Leboucq: «C’è anche l’ipotesi che ci spediscano in tribunale...». L’assemblea dei giornalisti di Libération e la direzione della redazione denunciano «una procedura che non è degna di un paese democratico, dove la libertà di stampa non può essere sotto scacco».

A Libé sono preoccupati, perché il loro caso si somma a quello di Perilleux, e come racconta Leboucq, «era già successo ad altri colleghi, anche di testate locali, che la segretezza delle loro fonti fosse presa di mira».

Repressione e farsa

L’Eliseo e il governo – mentre i media più importanti del paese firmavano appelli e le associazioni per i diritti lanciavano allerte – hanno risposto con plumbeo silenzio. Per capire fino in fondo la gravità di quei silenzi bisogna mettere in relazione gli episodi recenti con quel che la “Macronie” sta facendo in Francia e in Europa.

Tanto per cominciare, Emmanuel Macron ha promesso gli “stati generali dell’informazione”, con iniziative in tutto il paese da ottobre, ma intanto in Ue proprio il governo francese ha fatto pressione perché nella elaborazione dello European Media Freedom Act restasse l’opzione di sorvegliare i giornalisti in nome della «sicurezza nazionale».

Inoltre l’attacco alla libertà di informazione si intreccia con una più generale deriva securitaria e repressiva. L’illiberale “legge sulla sicurezza globale” proposta nel 2020 limitava la possibilità di filmare le forze dell’ordine, ad esempio. E quando la polizia ha represso nella violenza le proteste sulla riforma delle pensioni, i giornalisti hanno sia raccontato che subìto quella violenza.

Pavol Szalai, che dirige l’ufficio europeo di Reporters sans frontières, nota che «la violenza della polizia nell’èra Macron è un vero problema»; e ha dati che fanno impressione: durante le proteste su pensioni e ambiente, nel giro di due mesi ci sono stati più casi di violenza che in due interi anni.

L’attacco alla segretezza delle fonti giornalistiche avviene anch’esso in relazione ad «articoli che riguardano la polizia o le forze armate», come nota lo stesso Fabien Leboucq di Libération. Lui ricorda le leggi securitarie e le derive, securitarie. Ma alla fine è di derive illiberali che stiamo parlando.

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