Ora è chiaro il messaggio che l’ambasciata Usa aveva già affidato ai poster comparsi a Pasqua in Ungheria. Quel «Russi, tornatevene a casa», apparentemente riferito all’Ucraina con tanto di bandiera gialla e blu, era un segnale al primo filorusso della nazione e cioè al premier Viktor Orbán.

È da Budapest che Washington vuole sganciare la Russia, ed è al despota ungherese che sta lanciando segnali. Il gonfiarsi dei rumors su presunte sanzioni Usa contro l’establishment ungherese – già di per sé un avvertimento – si è tradotto questo mercoledì pomeriggio in un annuncio: «Per colpire l’accesso della Russia al sistema finanziario internazionale» le misure puntano alla Banca internazionale degli investimenti russa con sede a Budapest, e a un pugno di dirigenti di stanza in Ungheria, come ha spiegato David Pressman, ambasciatore Usa in Ungheria, ai cronisti.

Tensioni e sanzioni

Il ministro degli Esteri ungherese a Mosca questa settimana. Foto min.esteri

Tra i sanzionati spicca l’ungherese Imre Laszlockzi: prima di diventare il vicepresidente della Banca nota in gergo come «banca-spia» era stato per decenni ambasciatore ungherese in paesi come il Kazakistan e l’Azerbaigian; tra le sue missioni di diplomatico, ve n’erano state anche in Italia. Sanzionate anche figure apicali dell’istituto bancario con sede a Budapest: i russi Georgy Potapov e Nikolay Kosov.

La conferenza stampa di Pressman ha reso bene i rapporti tesi: l’ambasciatore ha accusato Orbán di aver ignorato ogni avvertimento. La Banca russa ha fatto di Budapest il suo avamposto europeo nel 2019, e «da tempo avevamo espresso preoccupazioni su come Mosca poteva usarla per espandere la sua influenza malevola sui vicini europei e gli alleati Nato», parole di Pressman.

L’aggressione dell’Ucraina ha alzato il livello di allarme - ma non per il premier ungherese. Anche dopo la sua rielezione, ad aprile di un anno fa, ha confermato di voler proseguire tutte le cooperazioni con Mosca, dal progetto di espansione della centrale nucleare Paks in partnership con la Russia, alla banca stessa.

Mano a mano che gli altri paesi, anche i vicini di Visegrad, sottraevano i loro investimenti dalla banca russa, l’Ungheria invece avanzava. «Diversamente dagli alleati, l’Ungheria ha ignorato le nostre preoccupazioni, e persino quelle della stessa Banca centrale ungherese», dice Pressman.

Perciò finisce sanzionata la “banca-spia”, ma il vero messaggio è per Orbán, che fa dell’Ungheria una porta aperta verso Russia e Cina.

L’ambasciatore

(Pressman con Blinken. Foto ambasciata)

Mentre Washington ha stretto sempre più i rapporti con Varsavia – già prima dell’aggressione russa in Ucraina aveva considerato il presidente polacco Andrzej Duda come il proprio pontiere – i rapporti con Budapest si sono invece esasperati. Al premier polacco arrivano puntualmente gli inviti di Joe Biden al summit delle democrazie – nonostante gli evidenti problemi sul fronte dello stato di diritto – mentre non vale affatto altrettanto per Orbán.

Il suo ruolo nello scacchiere geopolitico è la prima ragione dei dissidi. Basti pensare ai frequenti viaggi del governo ungherese al Cremlino anche a guerra iniziata – il più recente è di questa settimana – o al ruolo di boicottaggio dell’ingresso della Svezia nella Nato, o agli accordi rilanciati con Mosca sul fronte dell’energia. Più Orbán non si trova assecondato dall’Ue – che dopo anni di inerzia gli ha finalmente congelato una parte dei fondi – più calca la mano nei rapporti con Mosca, oltre che con la Cina.

E i rapporti con gli Usa si deteriorano: il governo ungherese attacca Pressman, Orbán fa tweet di sostegno a Trump in occasione del suo arresto; intanto l’ambasciata prepara le sue reazioni, dai poster all’allerta sanzioni.

Il profilo di Pressman, che si è insediato questa estate, pare disegnato per essere la nemesi di Orbán: basti pensare che è dichiaratamente gay e che è un difensore dei diritti lgbt, impiantato in un paese il cui governo promulga leggi omofobe.

Non bisogna sottovalutare il ruolo di avamposto dell’ambasciata, alla luce dei precedenti. Quando era segretaria di stato di Obama, Hillary Clinton aveva lanciato l’allerta verso le derive illiberali in Ungheria, ed era stato proprio l’ambasciatore a Budapest, André Goodfriend, a giocare un ruolo chiave.

Nel 2014 la Casa Bianca ha iniziato a esercitare pressioni sul governo orbaniano, e Goodfriend ha fatto da grimaldello: a ottobre 2014 ha lanciato il provvedimento che vietava l’ingresso negli Usa a sei ufficiali ungheresi.

Ne è seguita una fase a dir poco movimentata. «In assenza di prove documentali, è impossibile accertare se da parte americana vi fosse realmente l’intenzione di costringere Orbán a cedere il potere», ricostruisce lo storico Stefano Bottoni, biografo del premier.

«A Budapest, tuttavia, nei corridoi della politica e negli ambienti diplomatici si parlava come di un dato di fatto del «piano di marzo», elaborato a Washington per far cadere Orbán entro la primavera 2015 sul tema della corruzione. E non vi è dubbio che l’attivismo dell’incaricato d’affari Goodfriend andasse ben al di là delle consuetudini diplomatiche». Chissà che Orbán se ne ricordi.

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