È partita la grande iniziativa europea per fermare la legge anti lgbt del premier ungherese Viktor Orbán. Una sfida legale alla quale prende parte, oltre a Bruxelles, anche più della metà degli stati membri dell’Ue. Si è convinta la Germania, ha aderito la Francia. E l’Italia? L’Italia invece non partecipa.

Da quando Giorgia Meloni è al potere, le posizioni assunte dal governo Draghi sul fronte dei diritti sono state spudoratamente sconfessate. Qui pare non accorgersene quasi nessuno – pure tra i media – eppure visto da fuori il passo indietro è evidente. Con Draghi l’Italia era nel fronte dei governi che volevano fermare le uscite omofobe di Orbán; con Meloni al contrario siamo in quella minoranza di paesi che preferiscono assecondare le derive liberticide della destra ungherese.

Per gli attivisti lgbt il governo Meloni costituisce «una minaccia» su scala europea: «Nel 2021, il governo progressista italiano si era impegnato a sostenere le cause legali riguardanti i diritti delle persone lgbt, e due anni dopo il governo di Giorgia Meloni si è rifiutato di onorare questo impegno», prende atto Forbidden Colours che ha seguito il caso. «L'Italia finisce per essere l'unico paese che ha chiaramente voltato le spalle alle persone lgbt non aderendo alla causa».

La legge omofoba di Orbán

A giugno 2021 Fidesz, il partito al governo in Ungheria, è riuscito a piegare in direzione omofoba quella che in origine doveva essere una legge contro la pedofilia.

Gli aspetti controversi della legge anti lgbt sono almeno tre. Il primo riguarda la censura dell’omosessualità nell’educazione dei minori. Sotto il cappello della «difesa dei diritti dei minori», il provvedimento inserisce «il divieto di mettere a loro disposizione contenuti devianti rispetto al sesso assegnato alla nascita, o che promuovono l’omosessualità». Solo la coppia eterosessuale e la “famiglia tradizionale” ultraconservatrice hanno diritto di esistere, stando a questa legge, che obbliga anche professori ed educatori ad adeguarsi. Non devono infatti allontanarsi da un principio, che – da legge – è: «Il padre dev’essere un uomo, la madre una donna».

La legge anti lgbt è anche indirettamente una legge anti ong, visto che crea preclusioni verso le organizzazioni che non sono ritenute in sintonia con questa ideologia: l’educazione sessuale è preclusa «alle ong con orientamenti discutibili». Le nuove disposizioni non riguardano solo l’educazione sessuale dei minori, ma anche i contenuti che potrebbero capitar loro davanti, e che devono adeguarsi al criterio della “famiglia tradizionale”.

La guerra di Orbán ai cartoni animati – importata da Fratelli d’Italia durante la campagna elettorale sotto forma di “guerra a Peppa Pig” – nasce proprio così: con la legge anti lgbt le segnalazioni sui contenuti audiovisivi arrivano alla authority dei media, che può comminare multe e obbligare allo stop dei contenuti. L’autorità regolatoria è essa stessa espressione di Fidesz.

La marcia indietro di Meloni

Non si può dire che all’inizio l’Italia non fosse stata tempestiva nel condannare le derive ungheresi: già nella seconda metà di giugno 2021 – nell’èra Draghi quindi – l’Italia era tra i 18 stati membri dell’Ue che avevano espresso «preoccupazione» per la legge anti lgbt di Orbán.

Su iniziativa del Belgio, questo fronte di paesi invitava «la Commissione europea – in quanto custode dei trattati – a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione per garantire il rispetto delle leggi europee, compreso il ricorso alla Corte di giustizia europea». Ed è in effetti quel che è avvenuto. Dopo aver avviato, il 15 luglio 2021, un procedimento di infrazione contro l’Ungheria in relazione alla legge anti lgbt, la Commissione Ue ha ritenuto che la risposta fornita dall’Ungheria non fosse soddisfacente, e nell’estate 2022 ha annunciato che avrebbe portato il provvedimento ungherese davanti alla Corte di giustizia Ue.

L’Europarlamento a sua volta si è associato all’iniziativa, che nel corso dei mesi ha assunto sempre più peso politico. Solo l’Italia ha fatto esattamente il contrario, e cioè da questo fronte che cresceva e del quale inizialmente faceva parte si è bruscamente tirata fuori. Il 13 febbraio di quest’anno – dunque con il governo Meloni ormai in carica – il ricorso della Commissione è stato pubblicato sulla gazzetta ufficiale dell’Ue e da allora è stato aperto un ventaglio temporale per consentire a eventuali parti terze di associarsi.

Questo giovedì 6 aprile la finestra di opportunità si è chiusa e sappiamo ora per certo quali stati concorreranno all’iniziativa, e quali invece no. Lanciano la sfida alla legge anti lgbt di Orbán – assieme a Commissione e Parlamento Ue – il Belgio, che ha avuto un ruolo di apripista, il Lussemburgo e l’Olanda, anch’essi tra i primi, poi Portogallo, Danimarca, Austria, Malta, Spagna, Irlanda, che avevano annunciato il loro supporto dopo i paesi capofila, e infine Svezia, Finlandia, Slovenia, Grecia, Francia e Germania, che hanno aderito all’ultimo, sfruttando una proroga.

Ma l’Italia non c’è. «Posso mai dire di essere sorpreso?», alza le spalle Rémy Bonny, attivista lgbt e direttore esecutivo dell’associazione per i diritti arcobaleno Forbidden Colours. «Mi ricordo bene Meloni e l’attuale presidente della Camera Lorenzo Fontana a Verona, sul palco del World Congress of Families. Già in campagna elettorale, la attuale premier diceva che voleva fermare una presunta “lobby lgbt”. E dopo Polonia e Ungheria, ora anche l’Italia si aggiunge ai paesi che destano preoccupazioni in noi attivisti per i diritti».

Bonny ricorda il recente assalto alle famiglie arcobaleno da parte del governo italiano, che è stato stigmatizzato dall’Europarlamento, e non ha dubbi che l’Italia «stia facendo un passo indietro: solo pochi mesi fa, con il governo precedente, l’Italia aveva firmato le dichiarazioni contro la legge di Orbán. Ora invece si sta orbanizzando a sua volta».

© Riproduzione riservata