Un voto per il cambiamento, ma anche un passo indietro della comunità internazionale, che rischia di sminuirne la portata. Le elezioni di questa domenica in Bosnia ed Erzegovina sono state segnate da una serie di colpi di scena, destinati a esacerbare la crisi politica e istituzionale che attraversa il paese, la più profonda dal dopoguerra.

L’intervento retroattivo

Il primo coup de théâtre è arrivato domenica ad appena un’ora dalla chiusura dei seggi. L’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, Christian Schmidt, ha varato un pacchetto di misure con valore retroattivo. L’obiettivo annunciato è quello di migliorare il funzionamento delle istituzioni, in particolare della Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH), una delle due entità, croato-musulmana, di cui è composto il paese. In sostanza, la riforma ha l’effetto di rafforzare la rappresentanza della componente croata, e in particolare dell’Hdz BiH, principale partito nazionalista croato-bosniaco, in cambio di una maggiore funzionalità che garantisca la rapida formazione del governo della Federazione.

Questo compromesso, già nei mesi scorsi, ha provocato l’indignazione di quella parte del paese, prevalente ma non limitata alla componente bosniaco-musulmana, che chiede un sistema elettorale non più basato sulla rappresentanza etnica. I detrattori ritengono che la riforma amplifichi la frammentazione della Bosnia ed Erzegovina, andando in direzione opposta a quanto statuito anche dai tribunali internazionali.

Lo scenario internazionale

A stretto giro è arrivato l’endorsement alla riforma di Londra e Washington, che ha parlato di «atto urgente e necessario». Pilatesca l’Unione europea, che in una nota ha dichiarato di aver preso atto della decisione di Schmidt, specificando tuttavia che si trattava di una decisione del «solo Alto rappresentante». Come interpretare questa mossa inopportuna anche semplicemente nel metodo e nella tempistica? Forse come un tentativo di spezzare l’asse tra nazionalisti croati e serbi, e in particolare tra Dragan Covic, leader dell’Hdz BiH, e Milorad Dodik, uomo forte della Republika Srpska (Rs), l’altra entità della Bosnia a maggioranza serba. Asse attraverso cui si propaga l’azione destabilizzante del Cremlino nel paese e, di riflesso, nella regione e in Europa.

Una mossa fuori tempo

Potrebbe rivelarsi però un calcolo sbagliato, soprattutto alla luce dei risultati elettorali, in particolare quelli provenienti dalla FBiH. E qui sta il secondo colpo di scena della notte elettorale: nella corsa alla presidenza dello stato, gli elettori hanno bocciato i partiti etnonazionalisti che hanno dominato il dopoguerra, l’Hdz BiH, gemello del partito al governo a Zagabria, e l’Sda, principale partito di riferimento della componente bosniaca-musulmana, sostenuto dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Quest’ultimo, dalla fine del conflitto negli anni Novanta, era quasi sempre riuscito a eleggere un suo candidato. Ad aggiudicarsi i tre scranni della presidenza, sono stati i candidati civici di orientamento progressista, Zeljko Komsic (membro croato) e Denis Becirovic (membro bosgnacco). In controtendenza la componente serbo-bosniaca, che ha eletto Zeljka Cvijanovic, schierata dall’Snsd di Dodik (membro serbo). Dalle altre sfide elettorali emerge, se non una sconfitta, almeno un generale arretramento dei partiti etnonazionalisti: il cortocircuito tra il messaggio arrivato dalle urne e l’intervento dell’Alto rappresentante non potrebbe essere quindi più profondo.

La casella Dodik

L’ultimo colpo di scena si è registrato in Republika Srpska, la Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina. Qui si giocava una delle partite più importanti, quella per la presidenza dell’entità serba. Con l’82 per cento dei voti scrutinati, il separatista serbo Dodik è avanti al 48,8 per cento contro il 42,7 della candidata di opposizione, Jelena Trivic, che nella notte di domenica aveva rivendicato la vittoria. Sul voto, segnato da diffuse irregolarità e talvolta intimidazioni, come è stato denunciato dagli osservatori internazionali, entrambi i candidati, Dodik e Trivic, hanno promesso di dare battaglia. L’eventuale riconferma dell’alleato di Russia e Ungheria alla testa della Republika Srpska sarebbe un ulteriore fattore di destabilizzazione per l’Europa. Dallo scorso anno, il leader serbo ha messo in atto un piano secessionista che farebbe implodere l’architettura istituzionale del paese, portandolo dritto alla guerra. Tenuta finora in stand by anche per le sconfitte subite dalla Russia in Ucraina, la carta della secessione potrebbe essere calata da Dodik, su ordine di Vladimir Putin, in un’ulteriore escalation del conflitto russo all’occidente.

Dinanzi a questa minaccia, la decisione dell’Alto rappresentante risulta ancora più improvvida, contribuendo ad aumentare tensioni etniche che rischiano di riesplodere.

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