L’incontro aspro con Josep Borrell non sembra aver scalfito le convinzioni di Albin Kurti. Il volto del premier kosovaro si allarga in un sorriso: «È andata meglio nel processo che nei risultati». L’appuntamento è al palazzo del servizio europeo d’azione esterna, centro nevralgico della diplomazia dell’Ue a Bruxelles. Ma il meteo prevede tempesta. La riunione d’emergenza convocata dal capo della diplomazia europea per ricomporre l’escalation nel nord del Kosovo finisce con un nulla di fatto.

Anche sul piano simbolico: i mediatori europei cercano invano di spingere le due parti a un faccia a faccia. «Ero pronto a incontrare il presidente serbo (Aleksandar Vucic), ma si è rifiutato di farlo» racconta al Domani il premier ribelle. Non è la sola cosa che gli imputa: «Prima si è rifiutato di firmare l’intesa di Ohrid (sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo), poi si è pentito di aver dato il suo consenso. Ora non vuole nemmeno incontrarmi».

Trattative

Su un altro piano, quello della ricerca di una soluzione concreta alla crisi, la distanza tra gli eterni nemici resta siderale. La tabella di marcia presentata dall’Ue non convince Kurti che come un disco rotto, continua a ripetere la stessa melodia: «Abbiamo bisogno di ridurre le tensioni, ma de-escalation significa ripristinare lo stato di diritto prima di indire elezioni anticipate». Ripetere il voto nelle quattro municipalità a maggioranza serba, epicentro della crisi, è la richiesta più urgente di Bruxelles e Washington. Una richiesta senza condizioni, accompagnata dal ritiro delle forze speciali di polizia dispiegate nel nord. Ma anche in questo caso, Kurti detta le sue condizioni: «Il ritiro sarà graduale e proporzionato alla rimozione delle proteste violente e delle gang criminali che hanno provocato gli scontri, attaccando i militari della Kfor (missione Nato in Kosovo) e i giornalisti».

L’altra direttrice lungo cui si muove Pristina è quella del dialogo con Belgrado. Un dialogo che aveva prodotto un’intesa “concordata ma non firmata” sulla base di una proposta franco-tedesca, sostenuta da Ue e Stati Uniti. «Normalizzare le relazioni è una necessità, ma l’attuazione dell’accordo deve essere piena, rapida, bilanciata e senza condizioni» è il ragionamento di Kurti. Quello stesso accordo, salutato come storico, si è però infranto contro il muro della realtà. Una realtà fatta di ambiguità e sfiducia. L’ambiguità dell’Ue che ha rimandato a un secondo momento i dettagli dei punti più controversi dell’intesa. E la sfiducia dei due leader, Kurti e Vucic, che riflette gli anni di divisioni e recriminazioni seguiti al conflitto.

E nella partita giocata tutta in attacco da Kurti, nel mirino finisce anche l’Ue che individua nel Kosovo il responsabile dell’escalation. Bruxelles, di concerto con Washington, ha varato una serie di misure come ritorsione per il mancato adempimento delle richieste per arrivare a una de-escalation immediata. Senza sortire effetto. Davanti all’intransigenza di Kurti, la commissione si è messa a lavoro per limare i provvedimenti che puntano, di fatto, a trasformare il Kosovo in un paria internazionale. Nessuna visita ufficiale, se non finalizzata alla risoluzione della crisi. E naturalmente, stop al sostegno economico all’Ue e a un processo di integrazione europea iniziato formalmente solo nel dicembre scorso, con la presentazione della richiesta di Pristina di adesione. Misure, si affrettano a specificare a Bruxelles, temporanee e reversibili, a seconda degli sviluppi sul campo. Ma la sostanza non cambia.

«Siamo stati trattati ingiustamente, il Kosovo è il paese più europeista e più democratico dei sei paesi dei Balcani - spiega il premier - diverse e prestigiose organizzazioni internazionali hanno riconosciuto i progressi economici e democratici compiuti: questo è un aspetto che l’Ue dovrebbe tenere bene a mente». Il ragionamento del premier non trova però sponde né a Bruxelles né a Washington. Il dialogo Belgrado-Pristina, osservano, prescinde da valutazioni sulla democraticità dell’una e dell’altra parte. È un vecchio ritornello, quello della stabilocrazia, che ora mostra tutti i suoi limiti: sacrificare la democrazia in nome della stabilità, l’eredità più velenosa lasciata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nei Balcani. Quella eredità si è trasformata ora in una trappola perché in tempi di crisi, con la guerra alle porte in Ucraina, e un accordo riparatore che scongiuri l’apertura di un secondo fronte nel cuore d’Europa, la stabilità è una strada obbligata, la democrazia ancora una volta dovrà aspettare.

Il sottotesto delle trattative Serbia-Kosovo è chiaro e basta da solo ad avere effetti destabilizzanti nei Balcani, in particolare nell’anello debole della regione, la Bosnia-Erzegovina (BiH). All’ombra delle convulsioni kosovare, Sarajevo si contorce in una delle più gravi crisi politico-istituzionali del dopoguerra.

Opposti nazionalismi

Il leader nazionalista serbo bosniaco, Milorad Dodik, ha messo in moto una sequenza di eventi che fa temere nella migliore delle ipotesi un’implosione dello stato. Un paese in realtà mai realmente nato dopo la guerra negli anni Novanta. Per far cessare i cannoni, si scelse allora di imbrigliare la BiH in un complesso sistema istituzionale costruito in modo da impedire che un popolo costituente (bosgnacchi, serbi, croati) prevalesse sull’altro. Risultato: una paralisi lunga trent’anni che ha generato a sua volta frustrazione, divisioni e un esodo di massa che sta svuotando il Paese della forza lavoro giovane e qualificata.

La faglia più profonda è quella che divide la Federazione croato-musulmana dalla Republika Srspka (Rs), le due entità che formano il paese. Il seme della discordia, l’ultimo in ordine temporale, è stato gettato nella Rs, la regione a maggioranza serba. L’artefice è l’attuale presidente dell’entità, Milorad Dodik, che dopo aver minacciato la secessione per anni, sembra esser passato dalle parole ai fatti.

Nei giorni scorsi, il Parlamento della Rs ha approvato una legge che non permette più di applicare le sentenze della Corte costituzionale sul territorio dell’entità a maggioranza serba della BiH. È quella che alcuni analisti chiamano secessione legale: di fatto i confini dello stato restano intatti, l’integrità territoriale è salva. Quelle che vengono meno sono la sovranità e l’unità della Bosnia-Erzegovina: le istituzioni centrali sono svuotate di senso, il potere esercitato da Sarajevo è monco. C’è chi grida al colpo di stato, chi invoca l’esercizio dei poteri dell’alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, il tedesco Christian Schmidt, creatura, anche questa, concepita dagli accordi di Dayton che misero fine alla guerra. Con un obiettivo: vigilare sull’attuazione dei trattati di pace. Nelle intenzioni dei negoziatori, la figura dell’alto rappresentante avrebbe dovuto esaurirsi nel tempo, parallelamente alla ricomposizione dello stato.

Di fatto, il guardiano degli accordi di pace è ancora lì. Ed è alle sue prossime mosse che si guarda con attesa: Schmidt passerà dalla condanna delle azioni di Dodik alla rimozione dall’incarico? La pressione è alta e l’esito affatto scontato. Da un anno a questa parte l’Ue ha chiuso i rubinetti dei finanziamenti diretti alla Rs, per riportare il leader serbo a più miti consigli. Il risultato non è stato quello sperato, ma certo Dodik si ritrova a navigare in un mare di debiti che potrebbe essere fatale alla Rs. Così, il puzzle bosniaco diventa ancora più instabile. Finora il solo modo in cui Dodik ha provato a uscire dall’angolo è stato il ricatto: alzare la posta in gioco per costringere Ue e Usa a scendere a compromessi. La trappola della stabilocrazia, ancora una volta, fa pendere l’ago della bilancia dalla parte degli autocrati. Nel timore generale che quella trappola si riveli mortale.

© Riproduzione riservata