«Leggo sulla stampa tedesca che Bruxelles ha sospeso il Recovery plan dell’Ungheria. Ma la stampa tedesca non è certo la gazzetta ufficiale dell’Ue. Alla Commissione chiedo: è vero o no? Se sì, come mai questo parlamento non ne è a conoscenza? Ursula von der Leyen è intervenuta poco fa e non ci ha detto niente». Parla il liberale Guy Verhofstadt. Lui e gli altri eurodeputati sono a Strasburgo e ieri hanno discusso delle violazioni dello stato di diritto dell’Ungheria senza nascondere un senso di confusione. Da tempo chiedono a Bruxelles di intervenire per far rispettare la rule of law e la Commissione non si muove; poi d’un tratto circola la notizia che i soldi all’Ungheria sono bloccati. Persino tra i commissari c’è incertezza, come dimostrano le risposte vaghe date dallo staff di uno di loro. Poi la commissaria con delega allo stato di diritto, Vera Jourova, risponde a Verhofstadt: no, non le risulta, «la stampa tedesca si sbaglia». La notizia è circolata anche sulla stampa italiana. Di vero c’è che la Commissione sta usando l’iter in corso – deve vagliare i piani nazionali di Recovery – per esercitare una pressione politica su Budapest. Non blocca i fondi per la legge omofoba, ma chiede chiarimenti e fa pressing. Lo spaesamento degli eurodeputati è dovuto al fatto che la Commissione, nel male e nel bene, agisce di riflesso rispetto ai governi. Per anni sono stati indulgenti verso Orbán. Ora la tattica cambia.

La tattica di Bruxelles

Fino a poco fa, gli europarlamentari erano sfiancati dall’indulgenza dei governi e della Commissione verso l’Ungheria, le cui violazioni dello stato di diritto sono conclamate da anni. «Dov’erano finora? A guardare dall’altra parte, a tentare un appeasement con Orbán», dice l’eurodeputata Katalin Cseh, dell’opposizione ungherese. Un esempio riguarda proprio i soldi del Recovery. A fine 2020, quando aveva la presidenza di turno, Angela Merkel ha concesso a Budapest e Varsavia di ritardare l’applicazione del meccanismo che vincola i fondi al rispetto della rule of law. Il Consiglio europeo – i governi, compresi quelli che ora esprimono indignazione per la legge anti Lgbt ungherese – ha consolidato quel patto. E la Commissione si è adeguata, tanto che l’Europarlamento vuole portarla alla Corte di giustizia per inazione perché non attiva la condizionalità. Ora von der Leyen parla di «una discussione emozionale nell’ultimo vertice tra governi», cioè il Consiglio di fine giugno in cui la maggioranza dei paesi ha sottoscritto una lettera contro la legge omofoba. Il cambio di atteggiamento dei governi e quindi di Bruxelles è dovuto «al fatto che Orbán non è più nel Partito popolare europeo e alle pressioni dell’opinione pubblica», dice l’eurodeputato Daniel Freund. Fatto sta che da allora la Commissione ha dato segni di fibrillazione: ha scritto a Budapest che la legge viola la libera circolazione di beni e servizi, «stiamo vagliando la risposta»; e dai giornali Verhofstadt, e altri come lui, hanno appreso che i fondi verso l’Ungheria non sarebbero partiti. La realtà è più sfumata: quella notizia riflette un tentativo di pressione politica sull’Ungheria, ma di concreto c’è che Bruxelles prende tempo ed esige chiarimenti. «Abbiamo chiesto all’Ungheria di soddisfare alcuni punti e di darci spiegazioni su vari aspetti», dice una fonte della Commissione, mentre pubblicamente Jourova stessa dice che non si può parlare di sospensione dei fondi. Per la condizionalità dei fondi alla rule of law, Bruxelles rinvia all’autunno, quando forse inizierà ad adottare le linee guida; e poi, chissà quando, vedremo la prima azione concreta.

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