I governi europei usano parole infiammate per la legge anti Lgbt approvata in Ungheria e si accorgono delle derive illiberali del premier Viktor Orbán. Ma cosa facevano prima? Erano impegnati a perdonargli tutto, o quasi. Per anni il premier ungherese ha potuto contare sulla complicità della cancelliera Angela Merkel; prima dei diritti, per Berlino è venuta l’economia. Tuttora, il parlamento europeo è lasciato solo a dare battaglia per i diritti mentre i governi, e di riflesso la Commissione, temporeggiano.

Con la legge omofoba ungherese qualcosa cambia, certo: sui diritti civili l’opinione pubblica è mobilitata; da quando è uscito dai popolari, il premier ungherese ha perso alcune coperture, e cerca nuove alleanze. In apparenza, è in corso una battaglia sui valori in Europa. Ma a Bruxelles è più facile parlare, di valori, che agire per intaccare il potere di Orbán. Quando Emmanuel Macron chiede: «Eri un liberale, Viktor, cosa ti è successo?», dovrebbe sapere che in realtà a lasciar correre la deriva illiberale è stata anche l’Europa.

Chiudere gli occhi per anni

«Ci sono 102 procedure di infrazione in corso contro l’Ungheria, non sarà la 103 a fermare Orbán», dice l’europarlamentare verde Daniel Freund. «Bisogna parlare l’unico linguaggio che il premier coglie: quello dei soldi». Freund è l’erede politico di Judith Sargentini, la grande accusatrice di Orbán, autrice di un rapporto che denunciava l’attacco a libertà e democrazia. Nel 2018, l’Europarlamento lo approvò ed era risoluto ad agire contro l’Ungheria. Ma i governi no. Il premier olandese Mark Rutte ora dice: «Se l’Ungheria non rispetta i diritti Lgbt, lasci l’Ue». In realtà ci sarebbe un modo, non per cacciare Budapest dall’Ue, ma per sospendere ad esempio il suo diritto di voto, se viola lo stato di diritto. Si chiama articolo 7, ma come dice il giurista Alberto Alemanno, «servono una maggioranza di stati e una Commissione coraggiosa per attivarlo». Condizioni che non sussistono. Per attivare l’articolo 7 serve l’unanimità, e si dice che i paesi sotto accusa – Polonia e Ungheria – si spalleggerebbero tra loro. «Ma in Consiglio non si è mai arrivati neppure a votare».

Nel frattempo con i fondi Ue il premier ungherese ha potuto rafforzare indisturbato il potere suo e del proprio entourage. «Né le procedure di infrazione né le sentenze della Corte di giustizia europea, né le tante lettere di Bruxelles sono mai state efficaci», nota Freund. La principale ragione dell’inefficacia europea sta nell’acquiescenza di Berlino. Tra i due paesi c’è quella che in economia si chiama “interdipendenza asimmetrica”: la Germania è il partner forte, ma di Budapest non fa a meno. In Ungheria le grandi case automobilistiche hanno insediato gli stabilimenti, e i favori sono sempre stati reciproci. I rapporti tra Orbán e gli industriali tedeschi sono forti sin dal suo primo governo, nel 1998. Il premier li ha lusingati in vari modi, dagli acquisti militari alla slave labour law, legge che ha consentito loro di abbattere le tutele su riposi e straordinari. Nel 2015, quando lo scandalo sulle auto a diesel ha travolto Volkswagen, il premier ungherese in Consiglio europeo ha spalleggiato la Germania. Che ha spesso ricambiato. Il caso più eclatante riguarda proprio il nuovo meccanismo per vincolare i fondi Ue al rispetto della rule of law.

Le priorità dei governi

Un anno fa, i capi di stato e di governo si sono accordati sul piano di indebitamento comune. In quel consiglio di luglio, i valori non erano la priorità e l’Ungheria riuscì a ridurre la rule of law a un vago accenno. Certo, paesi come Olanda, Finlandia, Danimarca, Svezia, hanno a cuore lo stato di diritto; ma pure i “frugali” sono stati pronti a metterlo in secondo piano. «Rutte, che ora fa il duro, all’epoca nelle trattative sul Recovery aveva altre priorità: ridurre la quota di sussidi e mettere in salvo i rebate», dice Freund. L’insistenza dell’Europarlamento è stata fondamentale per ottenere che l’erogazione dei soldi sia condizionata allo stato di diritto. Ma a quel punto sono state Berlino e Bruxelles a portare in salvo l’Ungheria. Quando Budapest e Varsavia hanno minacciato il veto, Merkel le ha convinte a ritirarlo, ma in cambio ha fatto una concessione: ritardare l’applicazione della condizionalità. Salvare Orbán fino al 2022, cioè fino alle elezioni ungheresi. Oggi, mentre von der Leyen definisce la legge anti Lgbt «una vergogna» e nei giorni in cui 17 governi siglano una lettera per difendere i diritti civili, l’Europarlamento vuol portare la Commissione alla Corte di giustizia visto che ritarda e non applica il meccanismo.

Spostare lo scontro

Già dieci anni fa l’Ungheria ha messo la “famiglia tradizionale” in Costituzione. Nel 2015, le scelte anti migranti sono valse un «dittatore!» pronunciato da Jean-Claude Juncker. Primavera 2020: Orbán reclama i «pieni poteri».

Eppure ci sono voluti anni prima che la rottura con il Partito popolare europeo, lo stesso di Merkel, si consumasse. Ora che il partito Fidesz è “battitore libero”, lavora a un nuovo raggruppamento della destra, intensifica i legami con Lega e Fratelli d’Italia. Ha perso alcune coperture, ma ha trovato nuovi alleati, e l’elemento che li unifica è la retorica sulla «famiglia tradizionale».

I governi e la Commissione hanno lasciato che il potere di Orbán crescesse e ora accettano di spostare lo scontro dove lui vuole, cioè sulla famiglia. È una vittoria per la società civile europea: sui diritti civili molti governi – Germania inclusa – non possono più transigere. Ma è anche una beffa di Bruxelles: oltre il soft power non va. «Facile allinearsi sui temi Lgbt, ma dubito che sui rapporti dell’Ungheria con Cina e Russia ci sarà altrettanta compattezza, dice Mujtaba Rahman di Eurasia Group.

C’è chi ipotizza che la legge anti Lgbt rimarrà inapplicata grazie alle pressioni, ma intanto Orbán sta riuscendo a privatizzare – a favore del suo cerchio magico – l’intera rete autostradale.

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