«Basta idiozie! La gente non si cura perché qualche pagliaccio va a raccontare menzogne e a spaventare cittadini. Il vaccino c’è, funziona e ha pochissime controindicazioni».
Lunedì, il presidente della regione Friuli-Venezia Giulia Massimiliano Fedriga ha lanciato il suo attacco più duro ai manifestanti che da settimane hanno trasformato Trieste nella capitale del dissenso No-vax e no green pass.
Ma quello che potrebbe essere considerato uno sfogo locale con risvolti umani (diverse persone vicino al presidente lo descrivono personalmente preoccupato per contagi e malattie anche perché «un po’ ipocondriaco»), in questi giorni di tensioni interne alla Lega, porta con sé un inevitabile sottotesto politico: l’attacco ai no green pass sarebbe un messaggio al segretario Matteo Salvini, che a quei manifestanti in passato ha più volte strizzato l’occhio.

Le due Leghe allo scontro

Le parole di Fedriga arrivano anche nella settimana in cui le anticipazioni del nuovo libro del giornalista Bruno Vespa hanno riaperto lo scontro tra il leader leghista e il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti – probabilmente la più grave divisione nella Lega dall’inverno 2017-2018, quando Salvini ha cancellato, alle primarie di partito, il candidato dell’opposizione interna ed emarginato il suo principale sponsor, il fondatore del partito Roberto Maroni.
Dopo aver subìto quasi in silenzio lo stillicidio di dichiarazioni critiche di Giorgetti, questa volta Salvini è passato al contrattacco. Giovedì ha convocato un consiglio federale del partito in cui ha ottenuto le pubbliche scuse del ministro e incassato la conferma unanime della sua linea politica.

Salvini continua ad avere un certo vantaggio sui suoi avversari interni. Prima di tutto ha ottenuto risultati elettorali senza precedenti, portando il partito a una percentuale di consensi di gran lunga superiore a quelle ottenute dal suo predecessore Umberto Bossi. Come ricordava qualche tempo fa lo stesso Fedriga, «quando ero segretario a Trieste nel 2003 la Lega aveva l’1,2 per cento. Adesso ha il 30 per cento. È cambiato l’universo e il merito indiscusso è di Matteo Salvini».

Inoltre, se anche qualcuno volesse ribellarsi, la struttura della nuova Lega creata dal Capitano è un incomprensibile labirinto di scatole cinesi. In pochi hanno chiaro non solo come sfiduciare il leader, ma anche quali passaggi formali sono necessari per farlo.

Amici, ma non alleati

Terzo fatto a favore del segretario: i suoi potenziali avversari sono divisi. I tre più citati in questi mesi, Giorgetti, il presidente del Veneto Luca Zaia e lo stesso Fedriga, possono avere in comune il desiderio di una Lega più centrista e moderata, che non venga isolata o guardata dall’alto in basso dai potenti di turno. Ma cosa altro c’è a unirli? Ben poco.
Fedriga e Giorgetti, ad esempio, si conoscono e si stimano da anni. Quando Salvini ha conquistato il partito nel 2013, aveva scelto proprio il giovane e brillante Fedriga per sostituire il più paludato Giorgetti come capogruppo alla Camera. Giorgetti non se ne è avuto a male e, anzi, ha aiutato il suo successore ad adattarsi al ruolo. Ancora di recente Fedriga parlava della «stima infinita» che lo lega a Giorgetti.

Appena eletto presidente di regione, con Salvini nel pieno della sua fase “capitan Papeete”, Fedriga già diceva ai suoi alleati in regione che la Lega avrebbe dovuto diventare una nuova Dc. Frasi che Giorgetti ha iniziato a dire pubblicamente non molti mesi dopo.

Questa vicinanza personale e di idee tra i due, però, fino a oggi non ha portato a molto di concreto. Qualche visita al porto di Trieste, la considerazione amichevole da ministro dello Sviluppo economico. In campagna elettorale, in ogni caso, sia nel 2018 sia alle ultime amministrative, Giorgetti non si è visto.  

In politica, si sa, c’è poco spazio per i sentimenti e Fedriga rimane il più salviniano dei presidenti di regione. Sia per stile che per il modo in cui ottiene risultati. Il suo staff ci tiene a rimarcare che il presidente si consulta con il segretario «costantemente» (mentre Giorgetti in Friuli si è fatto vedere giusto un paio di volte in due anni). Quando gli si chiede della conferenza di lunedì scorso, lo staff rimarca che Fedriga ha attaccato i «No-vax», non i «no green pass» (che, è il sottotesto, si sarebbe potuto interpretare come un attacco a Salvini).
La relazione fra i tre è immortalata in una fotografia postata su Twitter dallo stesso Fedriga in occasione di una visita a Roma a inizio ottobre. Il presidente del Friuli è seduto di fronte a Salvini e sembra ascoltarlo con grande intensità. Giorgetti, seduto in fondo al tavolo, guarda Fedriga con aria bonaria, ma è una comparsa nella scena.

L’ingombrante vicino

Con il vicino presidente del Veneto, i rapporti sembrano addirittura peggiori. Per anzianità, prestigio e rango, sarebbe spettato a Luca Zaia diventare capo della conferenza delle regioni, un organo divenuto centrale con l’arrivo della pandemia.

Sia vero o no che a Zaia il posto non interessava, alla fine è stato Fedriga a occuparlo. E tutti gli addetti ai lavori ci hanno letto una chiara manovra di Salvini per limitare il potere del presidente veneto.
Anche se Zaia non sembra portare rancore per questo episodio, il che non è improbabile, la relazione tra i due ha comunque poco margine per svilupparsi. Zaia ha indicato innumerevoli volte che il suo unico desidero è morire «doge di Venezia». Dovesse dare un consiglio al giovane collega sarebbe quello di accontentarsi del “patriarcato di Aquileia”, per restare nelle metafore medievistiche: un po’ poco per l’ambizioso Fedriga, riconoscono amici e avversari.

D’altro canto che Zaia possa rinnegare una vita politica di prudenza e assenza di colpi di testa per sostenere un’eventuale rivoluzione sembra improbabile. In passato il presidente del Veneto non ha alzato un dito in favore di Maroni quando Salvini lo ha di fatto estromesso e non ha speso una parola nemmeno per Flavio Tosi, leghista veneto come lui e ultimo corregionale a tentare di spezzare il giogo lombardo che da sempre domina il partito. Tutti e due sostenevano la necessità di rendere la Lega più moderata.

Il partito leninista

Fedriga sa benissimo tutto questo. Sa benissimo che la Lega è un partito «leninista», come non si stanca di ripetere chiunque nel partito venga interpellato sulla famigerata teoria delle “due Leghe”. Ossia un partito disciplinato, in cui il dissenso nei confronti del capo non è tollerato.

Quando alcuni giornali, tra cui Domani, hanno raccontato le sue manovre per preparare una lista personale in vista delle prossime elezioni regionali, sul modello di quella di Zaia che lo scorso settembre ha ottenuto il 44,57 per cento (contro il 16,92 della Lega), Fedriga ha dovuto rispondere a una telefonata inquisitoria del leader. Esperienze da non ripetere.

Il presidente del Friuli sa altrettanto bene che non c’è bisogno di spostarsi troppo verso il centro perché la Lega di Salvini si è già moderata. La volta in cui è andato più vicino all’aperto dissenso con il leader è stato sulla questione dell’obbligo di green pass sui luoghi di lavoro, quando si è unito con gli altri presidenti di regione del partito per persuadere Salvini ad accettare una misura a cui, sostanzialmente, soltanto lui era contrario.

Sul green pass il Capitano ha cambiato idea, così come ha cambiato idea sull’euro, sul Movimento 5 stelle, su Draghi, sulle pensioni, sulla forza elettorale di farsi vedere in costume e ciabatte al Papeete. È sufficiente? L’unanimità del voto di giovedì fa pensare che per ora la risposta sia sì. Minacciare seriamente la leadership del capitano è un altro paio di maniche. Per arrivare a questo tipo di aperta ribellione, Fedriga dovrà attendere che Salvini commetta errori di ben altro calibro rispetto a quelli fatti fino a ora. 

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