Con il centrodestra che si appresta a vincere le elezioni con una delle maggioranze politiche più vaste che si siano mai viste nel nostro paese, Giorgia Meloni potrebbe realizzare il sogno politico che la accompagna da quasi un decennio: trasformare il paese in una repubblica presidenziale.

Fratelli d’Italia ha già presentato proposte in questo senso e i suoi leader ne parlano di continuo. Ora, diversi costituzionalisti iniziano seriamente ad essere preoccupati. Sono riforme «pericolose – dice Michele Della Morte, professore di diritto Costituzionale all’università del Molise – perché dirette a sminuire la rappresentanza politica che, coniugando autorità e libertà, è la condizione ancora oggi indispensabile per garantire eguaglianza e solidarietà tra cittadini e territori».

Un vecchio pallino

Da sempre, il centrodestra ha il pallino delle riforme costituzionali. Forza Italia ha impusto a lugno la sua visione agli alleati e a Silvio Berlusconi interessava molto più il “premierato forte” di una radicale riforma del sistema di governo. Così nella riforma approvata nel 2005 non c’è traccia di presidenzialismo, ossessione invece dell’alleato An. Soltanto nel 2013, quando Meloni e una pattuglia di ex An si emancipano dal berlusconismo, il presidenzialismo torna in agenda, anzi: entra direttamente nei documenti fondativi del loro nuovo partito, Fratelli d’Italia.

Negli anni successivi, Meloni presenterà in tutto almeno tre proposte di riforma costituzionale, nel 2013, 2018 e 2019. Queste proposte, soltanto leggermente diverse le une dalle altre, hanno una serie di elementi in comune. Il principale è, ovviamente, l’elezione diretta del presidente della Repubblica da parte dei cittadini, in genere tramite elezione con doppio turno. Un meccanismo oggi presente ad esempio in Austria e che crea una forte relazione tra il capo dello stato e l’elettorato.

Di solito, è previsto anche l’abbassamento dell’età minima del capo dello stato e un limite di due mandati. Il passo successivo è quello di posizionare il presidente della Repubblica a capo del governo, obiettivo raggiunto con una modifica dell’articolo 92 della Costituzione, in cui si stabilisce che «il presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri».

La stessa cosa che accade in Francia e che costituisce la definizione di semi-presidenzialismo, il sistema caratterizzato dalla coesistenza di un presidente esecutivo con un primo ministro più o meno a lui subordinato. Infine, altro storico pallino del centrodestra e di recente incluso nelle ultime proposte di riforma, Meloni propone di introdurre la sfiducia costruttiva, che impedisce di votare contro un governo se non viene già indicato il nome di un nuovo esecutivo in grado di ottenere la fiducia. Insomma: non solo il presidente non potrebbe essere sfiduciato, ma anche liberarsi del suo governo sarebbe molto difficile.

Scenari inquietanti

La recente introduzione della sfiducia costruttiva nel mix proposto dal centrodestra suscita tra gli esperti particolari preoccupazione. Si tratta di un sistema, spiega Della Morte «tipizzante alcuni regimi parlamentari, Germania in primis – ma che in Italia – rischierebbe di produrre una concentrazione di potere abnorme in capo al futuro presidente direttamente eletto, determinando una progressiva marginalizzazione del ruolo del Parlamento».

Proviamo a immaginare lo scenario di un presidente della Repubblica eletto a doppio turno, quindi potenzialmente gradito da una minoranza degli italiani – come negli ultimi anni è avvenuto regolarmente in Francia. Immaginiamo poi che questo presidente abbia a che fare con una parlamento frammentato, come quelli tipici delle legislature italiane. L’elezione popolare unita alla guida del governo lo renderebbe non una figura di garanzia, ma un autentico attore politico e il più potente in circolazione.

Con la forza della sua investitura popolare e con la minaccia di sciogliere il parlamento, potrebbe in modo ottenere la fiducia ad un governo anche dalle camere relativamente balcanizzato. A quel punto si troverebbe a capo di un esecutivo estremamente difficile da sfiduciare (serve individuare un sostituto che metta la maggioranza d’accordo) e con la possibilità di minacciare il parlamento con lo scioglimento delle Camere.

Mix tossico

Ma non sarà semplice per gli avversari di Meloni e della sua eventuale riforma alzare le barricate. Praticamente tutte le forze politiche della seconda repubblica si sono intrattenute in qualche momento con l’idea di trasformare l’Italia in una repubblica presidenziale. Uno dei primi a parlarne apertamente è stato nientemeno che Giuliano Amato, negli anni Ottanta. E se nel 1994 una bozza presidenziale viene studiata dalla commissione Speroni, voluta dal governo Berlusconi, nel 1997 un’altra versione esce dalla commissione bilaterale presieduta da Massimo D’Alema.

Insomma, anche nel centrosinistra c’è una forte corrente che guarda con favore al semi-presidenzialismo francese come strumento per superare quella che considera la palude senza scampo del parlamentarismo italiano. Il problema di oggi però è complicato dal fatto che il presidenzialismo è solo una delle possibili riforme in circolazione. La Lega, ad esempio, vuole introdurre maggiore autonomia regionale.

Se, come molto probabile, il centrodestra coinvolgerà i centriste nella riforma, potrebbe riaffacciarsi anche il taglio di una delle due camere di matrice renziana. Il tutto, avverrebbe in una fase in cui un’altra riforma ancora ha dimezzato il numero dei parlamentari. «Il rischio di un intervento così ampio sul bilanciamento tra i poteri – conclude Della Morte – è quello di deprimere il pluralismo che è l'ossigeno di una società complessa ed articolata come quella italiana, in funzione di una democrazia iper maggioritaria che, tuttavia, per essere tale, necessità di sopprimere la discussione e la mediazione parlamentare sacrificando il ruolo delle minoranze e delle parti sociali».

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