Da quando, nel giugno di quattro anni fa, hanno dato vita al primo governo gialloverde della storia italiana, qualcosa sembra legare indissolubilmente Matteo Salvini e Giuseppe Conte. I due leader hanno progressivamente perso consensi e oggi si ritrovano ai margini della scena politica italiana, mal sopportati dai loro compagni di partito e alla ricerca disperata di un espediente che possa ridare loro centralità.

Così si muovono a tentoni, provano a strattonare Mario Draghi, fanno intravedere lo spettro di una crisi, ma poi non sembrano mai veramente convinti di voler andare fino in fondo. E a ben vedere un motivo c’è. Ed è legato a un passaggio databile ad agosto 2019. Quello della famosa crisi di governo del Papeete, quando Salvini ha sancito, in maniera inaspettata e ancora oggi inspiegabile, la fine del Conte I.

Molto si è detto sui motivi di quella scelta. Secondo la narrazione più accreditata il leader della Lega aveva un accordo verbale con l’allora segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che gli aveva di fatto promesso le elezioni anticipate. Promessa da marinaio, se mai c’è stata, visto che la decisione ultima spettava al presidente Sergio Mattarella e non certo a Zingaretti. E infatti tutti sappiamo come è andata. Niente elezioni, accordo tra Pd e M5s, e nuovo esecutivo guidato da Conte sostenuto da una maggioranza giallorossa.

Che ne sarà di noi

A ben vedere oggi il leader del M5s si trova in una situazione molto simile. Domani incontrerà il premier Mario Draghi e c’è chi scommette sul fatto che, comunque vada il colloquio, Conte porterà il suo Movimento fuori dalla maggioranza. Magari decidendo l’appoggio esterno, formula sufficientemente nebulosa per aprire una crisi di governo senza assumersi fino in fondo l’onere di cacciare il premier da palazzo Chigi. Non è dato sapere se anche il leader del M5s abbia avuto uno Zingaretti che gli ha sussurrato all’orecchio, ma una cosa è certa: la sua mossa, come quella di Salvini di tre anni fa, difficilmente produrrà un voto anticipato.

All’orizzonte c’è la sessione di bilancio, Draghi gode ancora di un’intatta (anzi forse accresciuta negli ultimi mesi) stima internazionale, la pandemia torna preoccupantemente a riaffacciarsi e il paese non ha certo risolto i problemi che avevano reso necessaria la sua discesa in campo nel febbraio del 2021. Ieri il premier, da Canazei, ha indicato chiaramente nel «deterioramento dell’ambiente» la causa della tragedia che si è consumata sul ghiacciaio della Marmolada. E ha detto che è sua intenzione «prendere provvedimenti affinché quanto accaduto qui non accada più in Italia». Se nei prossimi giorni Draghi dovesse mettere a punto un “pacchetto clima”, come si comporteranno il M5s e Conte? Ha senso mettersi fuori dalla maggioranza per poi votarne i provvedimenti?

Certo, sullo sfondo c’è ancora la polemica sulle armi all’Ucraina, il quarto decreto dovrebbe arrivare nei prossimi giorni. Su quello il M5s è pronto a dare battaglia e Draghi non è disposto a cedere. Ma l’impressione è che tutto potrebbe finire come con il decreto Aiuti con i grillini che votano la fiducia per poi smarcarsi nel voto finale o al massimo ottengono una voto di fiducia per parti separate. Non proprio l’atteggiamento di chi vuole far cadere l’esecutivo.

Torna così il fantasma del Papeete. Perché una mossa sbagliata, Salvini insegna, può diventare l’inizio di una catastrofe. Allora, forse, è soprattutto per questo che Conte tergiversa.

Minacciare senza colpire

E lo fa in perfetta sintonia con Salvini che ieri ha incontrato i vertici del partito a via Bellerio. Anche lui lascia intravedere una certa insofferenza: «Se la sinistra insiste con droga libera, cittadinanza facile e ddl Zan, faremo vedere di che pasta è fatta la Lega». «Abbiamo un atteggiamento costruttivo ma temi divisivi come lo ius scholae vanno a minare la tenuta del governo, quindi se la sinistra persegue e va avanti per questa strada evidentemente la tenuta del governo potrebbe anche esserlo», dice Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega in Senato.

Ma poi, alla fine, la posizione prevalente sembra essere quella del ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, che, pur sottolineando che tocca al leader decidere se rimanere o no nel governo, spiega che «la Lega è un movimento responsabile che però in qualche modo vuole fare presente le proprie idee e posizioni. Mi sembra ragionevole, giusto, sacrosanto».

Insomma, né Conte né Salvini sembrano oggi nella condizioni di poter archiviare Draghi. Le possibilità all’orizzonte, soprattutto in assenza di una strategia per ricostruire il consenso elettorale, sono comunque un salto nel buio.

E il timore è di trovarsi come Matteo Renzi, che continua a rivendicare con orgoglio l’aver fatto cadere il Conte II producendo la scelta di Draghi, ma alla guida di un partito che non arriva nemmeno al 4 per cento.

 

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