Qualche anno fa, sulle pagine di questo stesso giornale, scrissi un articolo che parlava della crisi dell’antifascismo e di come questo determinasse un grave deficit politico che colpiva il nostro paese. Oggi la situazione è ancora peggiorata, ed è proprio per questo che è sempre più necessario riportare l’antifascismo al centro del dibattito politico.

L’attuale situazione politico-istituzionale su questo versante è assolutamente sconfortante, la presidente del Consiglio e con lei i maggiori esponenti del suo partito non riescono a dichiararsi apertamente antifascisti; tra le tante bizzarre scuse utilizzate per non dichiararsi tali, mi è sembrata molto esilarante quella espressa dal rieletto presidente dell’Abruzzo Marco Marsilio, che ha detto: «Anche Stalin era antifascista, anche Mao Tse Tung era antifascista». Per lo stesso assunto, non potremmo dirci cattolici perché a questa religione appartenevano Augusto Pinochet e Videla.

Giorgia Meloni, durante il comizio di chiusura della campagna elettorale della Sardegna, che ha avuto toni inaccettabili per una persona che ricopre una carica che rappresenta tutti gli italiani, ha sbeffeggiato la candidata Todde quando quest’ultima ha risposto che il principale motivo per votare lei e non Truzzo era perché lei è antifascista. Come se questo argomento fosse una minuzia e non invece un pilastro della Repubblica e della democrazia.

Essere democratici

Questa sufficienza, questa banalizzazione, se non un’aperta ostilità nei confronti dell’antifascismo, sono problematiche molto più estese di quanto si possa pensare: chi non si dichiara antifascista è una persona che si mette da sola al di fuori di ogni contesto democratico, inadatta quindi a ricoprire ruoli che devono tutelare tutti i cittadini. Non solo perché l’antifascismo è una prerogativa intrinseca e primaria della nostra Costituzione, e quindi di ogni ruolo politico espresso dal nostro paese, ma soprattutto perché l’antifascismo è una componente essenziale delle democrazie avanzate, ovvero di quelle che hanno già sperimentato i limiti della democrazia anteguerra. Essere antifascisti non vuol dire essere di sinistra, vuol dire essere democratici, essere rispettosi dei fondamentali diritti dell’uomo, e per questo cercare di fare in modo che tutti siano tutelati da essi.

L’agibilità mediatica che hanno questi discorsi dimostra come si sia persa la dimensione storica e politica dell’antifascismo. I ripetuti dinieghi non suscitano adeguata condanna, purtroppo questa sottovalutazione non si riduce esclusivamente agli esponenti di destra o afascisti, ma comprende anche taluni commentatori che possiamo reputare di sinistra (o almeno presunti tali), che considerano queste critiche poco produttive dal punto di vista politico ed elettorale. Con grande malizia politica, fin dal suo discorso d’insediamento, la premier Meloni ha volutamente mistificato il senso dell’antifascismo, scambiato quello degli anni Settanta, apostrofato in questa maniera, «quando nel nome dell’antifascismo militante ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese», con quello degli anni Venti/Trenta.

Etichette onnicomprensive

Chi oggi ha interesse nel confondere le idee dei cittadini gode di una situazione pregressa che gli semplifica il suo intento. Già negli anni Settanta, specialmente dopo la prima tornata generazionale del 1965, il mito della Resistenza aveva preso il sopravvento sull’antifascismo, sia perché essa è riuscita dove invece l’opposizione al fascismo aveva fallito, ovvero far cadere il fascismo, sia perché venne a generarsi una dimensione eroica dei partigiani che fece tutto il resto: giovani e giovanissimi che a prezzo della loro vita presero le armi per salvare l’onore dell’Italia umiliata dal fascismo.

Ed è proprio in quella stagione, gli anni Settanta, che purtroppo avviene questa torsione di significato, di cui oggi paghiamo ancora le conseguenze: in quei dolorosi anni, l’antifascismo tanto quanto il fascismo sono stati deprivati delle loro specifiche caratteristiche, trasformandosi invece in due mere etichette onnicomprensive, utili per essere impiegate a proprio uso e consumo.

Questo modo di fare, nei successivi anni Ottanta, e ancor di più negli anni Novanta e Duemila, dopo la cancellazione dei partiti prodotti dalle culture politiche che avevano scritto la Costituzione, viene utilizzato dai politici per coprire la crisi di idee e ideali politici che da tempo caratterizzano il panorama nazionale. Purtroppo questo dualismo sterile, perché svuotato di ogni contenuto valoriale, sopravvive ancora oggi, tanto da farci perdere la dimensione politica di quelle persone che durante il ventennio fascista hanno pensato, ideato e successivamente formato il nostro paese. Questo svuotamento di senso ha importanti e avverse ricadute, la retorica utilizzata nel dibattito allontana le giovani generazioni perché rimuove la storia e di conseguenza indebolisce i valori repubblicani conquistati dagli antifascisti.

I fratelli Rosselli

Quando parliamo di antifascismo, parliamo di quelle persone e di quelle culture politiche, nate anche prima dell’avvento del fascismo, che nell’opposizione al movimento di Mussolini trovano un minimo comune denominatore unificante. Questo è stata la base culturale della Resistenza prima, della Repubblica poi, fino ad arrivare all’Europa. Già nel 1933 i fratelli Rosselli bollavano il fascismo come l’anti civiltà e l’anti Europa, le libertà di tutti passano dalla civiltà e dagli ideali concreti.

Sui quaderni di Giustizia e libertà all’indomani dell’elezione di Hitler al potere così si legge: «Un antifascismo che non voglia ridursi ad ombra del passato deve prendere coscienza di questa crisi, di questa sua insufficienza ideale per rifarsi, nella sua opera, dai fondamenti. Sinora abbiamo costruito sulla rena. Bisognerà cercare la roccia. E per trovarla dovremmo avere il coraggio di rimettere in dubbio tutte le nostre posizioni, tutte le nostre mezze verità, il nostro stesso programma, se occorre, per porre le basi di una civiltà nuova, di un uomo nuovo».

Parole che sembrano descrivere la situazione odierna, oggi che i nazionalismi divampano in tutto il mondo e, forse non è un caso, alimentano i conflitti in Ucraina e Palestina. Stati Uniti, Russia, Brasile, Italia, Ungheria, Polonia sono paesi dove la destra estrema ha governato e governa, di rincalzo troviamo Vox in Spagna, Alternative für Deutschland in Germania e Rassemblement national in Francia che aspettano il turno per andare al potere.

Un fronte ampissimo, e forse neanche questo è un caso, che molti di questi paesi dove il fascismo vive una reviviscenza sono quelli che hanno solo di recente scoperto, ma non accettato, il ruolo da collaborazionisti con il nazismo. Sembra veramente l’alba di un mondo al contrario: i valori, in primis la pace, che hanno guidato il mondo dal Dopoguerra a oggi non sono più universalmente accettati, sembra un tragico ritorno agli anni antecedenti alla Prima guerra mondiale che furono antesignani per la Seconda. Pensiero bellicista, antiscientismo, complottismo, razzismo e antisemitismo stanno minando le basi del pensiero positivista e dello Stato di diritto, in una maniera che sembrava impossibile qualche anno fa. Proprio l’antifascismo potrebbe essere l’ancora di salvezza cui potersi aggrappare in questi momenti di disorientamento valoriale e divisione sociale, non solo in chiave nazionale, ma di più in chiave europea.

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