Tutti coloro che hanno a cuore l’interesse nazionale dovrebbero festeggiare il 25 aprile. Perché questo giorno non simboleggia solo il ritorno della libertà e della pace (che è già tantissimo). Ma segna il riscatto dell’Italia dal fondo più buio di tutta la sua storia, cui il fascismo l’aveva trascinata. Ed è un riscatto che ha avuto conseguenze concrete, molto positive, per il nostro paese. La guerra partigiana non fu decisiva per la capitolazione dei nazisti ma, comunque, distinse nettamente gli italiani dal fascismo, a differenza di quello che succedeva in Germania e in Giappone. E fu proprio in virtù di questo che noi potemmo rivendicare un trattamento migliore, rispetto alle altre due potenze sconfitte: fra l’altro la possibilità di ridisegnare in (relativa) autonomia le nostre istituzioni, dalla scelta fra monarchia e repubblica fino alla Costituzione.

Non è quindi solo la riconquista della libertà. La Resistenza ha fatto bene alla patria, da ogni punto di vista, come gli storici sanno bene (e come sapevano anche i partigiani, che si chiamavano patrioti). In un recente libro (25 aprile, Mulino), Luca Baldissara spiega anche però come da decenni questa data sia considerata divisiva: da una parte dello schieramento politico osteggiata o, più semplicemente, ignorata. Il motivo è ovvio, in fondo. Da quella parte c’erano coloro che, con il Msi nella Prima repubblica, erano gli eredi del fascismo; e la cui tradizione politica arriva oggi fino al principale partito di governo, fino a Giorgia Meloni, pienamente rivendicata (la fiamma del Msi è ancora nel simbolo di Fratelli d’Italia).

La rimozione del fascismo

Dietro questa risposta semplice si cela però un tema più spinoso. Ed è la rimozione storica di quello che il fascismo è stato: di come abbia soppresso la libertà con la violenza, assurgendo a modello anche per il nazismo (perfino il termine totalitarismo in Italia); dei crimini che il regime ha compiuto, dalla Spagna ai Balcani, all’Africa, a volte con la ferocia delle più terribili armi dell’epoca, peraltro vietate (i gas usati contro le popolazioni libiche ed etiopi); di come con le sue aggressioni abbia dato un contributo fondamentale al precipitare del mondo nella più mostruosa carneficina della storia, fornendo una sponda preziosa all’espansione hitleriana; della corruzione, anche, e dell’inefficienza che caratterizzavano quel regime; e di come, appunto, tutto ciò abbia condotto l’Italia alla rovina e al più totale disonore (beninteso, anche militare: ad esempio quello di trovarsi a perdere la guerra di aggressione alla Grecia).

Da queste rovine, da tanto sfacelo, l’Italia è riemersa proprio grazie, e a partire, dalla Resistenza. Non a caso la nuova classe dirigente antifascista guiderà, dopo la guerra, le politiche che portano al miracolo economico e più in generale all’epoca di maggiore conquista del benessere e dei diritti, e di rinascita anche sociale e culturale, dell’Italia.

A dirla tutta, però, di questa rimozione è responsabile anche una parte della cultura democratica, che in nome di una malintesa riappacificazione ha spesso fornito legittimazione agli eredi del fascismo. Malintesa, sì, perché agli eredi della cultura fascista non è stato chiesta, in cambio della piena ammissione al gioco democratico, quella che ne era la precondizione: condannare senza alcune reticenza tutti i crimini del regime e il fascismo in sé. Questa condanna è venuta in passato solo da Gianfranco Fini, criticato per questo dai suoi.

Ma non è mai venuta da Meloni e Ignazio La Russa, non dal loro partito: proprio loro però in questi anni hanno goduto di una sconfortante apertura di credito, non solo da parte dell’elettorato ma, prima ancora, da settori cruciali delle nostre classi dirigenti. Se oggi la democrazia liberale in Italia viene erosa a poco a poco, se appare in pericolo, e con lei per la verità anche l’interesse nazionale (l’illusione «sovranista» è dannosa per noi), in fondo è anche perché non abbiamo saputo fare i conti con la nostra storia. Per questo, se non altro, abbiamo bisogno più che mai del 25 aprile.

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