Martedì 23 in Senato si sfioreranno per la prima e forse ultima volta il ddl Autonomia e la riforma costituzionale del premierato: poi le due riforme simbolo una della Lega e l’altra di Fratelli d’Italia prenderanno necessariamente strade e tempi diversi.

Il ddl, infatti, riceverà il via libera definitivo per poi passare al vaglio della Camera, la riforma costituzionale sarà oggetto di un incontro tra i capogruppo di maggioranza a palazzo Madama con i componenti della commissione Affari costituzionali, per decidere sul pacchetto di emendamenti da presentare – otto o dieci al massimo – entro il 29 gennaio.

Tutto liscio e secondo i piani, apparentemente. In realtà le due riforme parallele e considerate dall’opposizione merce di scambio dentro la coalizione di centrodestra, sono un’ottima metafora dei rapporti interni tra i leader Giorgia Meloni e Matteo Salvini.

L’autonomia annacquata

Il ddl Autonomia scritto dal ministro leghista Roberto Calderoli, infatti, ha subìto uno strategico annacquamento prodotto da un emendamento di FdI. Solo apparentemente innocuo, prevede che i fondi per coprire gli eventuali maggiori oneri legati all’attuazione dei livelli essenziali della prestazioni siano aumentati anche per le regioni che non hanno chiesto l’autonomia differenziata. «Per scongiurare disparità di trattamento in contrasto con la Costituzione», ha spiegato FdI. In realtà – col via libera del ministero dell’Economia – questa correzione metterà al riparo le regioni meridionali, livellando a livello centrale le risorse. In ogni caso, anche con questo correttivo, il testo che verrà approvato al Senato per poi passare alla Camera rischia comunque di non essere immediatamente attuabile nemmeno al momento del suo via libera definitivo. L’articolo 4 del ddl, infatti, precisa che il trasferimento delle funzioni alle singole regioni che ne faranno richiesta sarà concesso solo successivamente alla determinazione e al finanziamento dei Lep (il livello minimo di servizi da garantire in modo uniforme a livello nazionale).

La commissione chiamata a determinarli e guidata da Sabino Cassese, che ha subito dimissioni di molti volti autorevoli come quelli di Luciano Violante e Giuliano Amato, non ha ancora dato notizie su quando i lavori termineranno. Di conseguenza, la sua approvazione in aula non determinerà automaticamente che la promessa autonomista della Lega ottenga immediata applicazione.

In altre parole, lo scopo primo del testo e le conseguenti spinte leghiste per approvarlo a tempo record è principalmente politico: l’autonomia sarà l’arma di Salvini per la campagna elettorale delle Europee. Tuttavia, l’annacquamento della riforma e la sua debolezza complessiva rischiano di rispecchiare proprio la situazione del Capitano: anche se non si candiderà in prima persona, infatti, il voto di giugno sarà comunque un referendum sulla sua Lega, che arriva in affanno e senza la certezza della soglia psicologica del 10 per cento.

Il premierato radicalizzato

Per converso, la riforma del premierato che Meloni ha definito la «madre di tutte le riforme» rischia di prendere una piega molto più radicale rispetto al testo portato in commissione Affari costituzionali del Senato dalla ministra Elisabetta Casellati. Le bozze di emendamenti verranno concordate tra alleati in modo che siano solide, ma la proposta da cui si partirà a ragionare è stata preparata dal meloniano presidente di commissione, Alberto Balboni, e dal senatore Marcello Pera, storico volto istituzionale del centrodestra ma anche aspro critico del testo Casellati, da lui contestato pesantemente su due punti: la “dittatura” del secondo premier, scelto nel caso di dimissioni del primo eletto in via diretta e con in mano la golden share di mandare a casa il parlamento in caso di mancata fiducia nei suoi confronti, e l’inserimento in Costituzione dei connotati della legge elettorale con premio di maggioranza. Proprio questi due punti, secondo indiscrezioni, saranno oggetto di emendamenti: dovrebbe sparire l’indicazione di percentuali del premio di maggioranza, ma soprattutto dovrebbe essere modificata la regola sul secondo premier.

Quest’ultimo emendamento è il più controverso. FdI è orientata a introdurre il principio del simul simul, ovvero che se il premier eletto viene sfiduciato si torna direttamente al voto. Ci sarebbe poi la soluzione intermedia, per limitare la nomina di un secondo premier solo in caso di impedimenti estremi come la malattia o la morte.

Se passasse l’emendamento caldeggiato da FdI, quindi, i connotati di repubblica parlamentare diverrebbero ancora meno netti in favore della figura del presidente del Consiglio. «Vedremo cosa deciderà il vertice», ha spiegato Balboni, dicendo che rimane in campo anche l’ipotesi di lasciare il testo Casellati così com’è. Tuttavia, rimane il fatto che la prima scelta di FdI è da sempre stata quella del simul simul e proprio questa versione così radicale rispecchia la visione originaria di Meloni, orientata a concentrare i poteri su una premiership legittimata dal voto diretto e senza controbilanciamenti che offrano soluzioni politiche alternative al ritorno alle urne.

La premier non ha ancora sciolto la riserva su una sua candidatura europea, ma la sua scelta di correre – «C’è il 50 per cento di probabilità», ha detto a Quarta Repubblica – cambierà gli equilibri della maggioranza e quindi anche la strategia di FdI nei confronti degli alleati e soprattutto della Lega. «Deciderò all'ultimo», ma «considero importante misurarmi sempre con il consenso» a un anno e mezzo di governo. Col sottinteso che – se questo facesse schizzare anche oltre il 30 per cento FdI come fece Salvini per la Lega cinque anni fa con il 34 per cento – le istanze leghiste sarebbero ulteriormente ridimensionate. Esattamente come già sta succedendo con la scelta dei candidati presidenti di Regione.

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