Si comincia comprando un terzino e guarda dove si va a finire. Un anno ti trovi a dover convincere un giocatore indeciso a lasciare la sua poltrona per venire a Terni, l’anno dopo convinci gli indecisi di Terni a dare una poltrona a te.

Quella di sindaco, per ora, e que serà serà. È l’effetto che fanno i gol, quando li scaraventi nel pentolone magico dove si impastano affari, interessi, una piccola dose di sentimenti. Stefano Bandecchi è l’ultimo che ha imparato la formula.

Ha avuto bravi maestri, tanti, un mucchio di presidenti di squadre di calcio che hanno scalato il cielo della politica partendo da un campo di pallone. Il settore è lo stesso. Sempre sogni si vendono. Anche il dizionario da tempo coincide, ci sono i gufi, i rosiconi, complotti quanti ne vogliamo e un potere forte, certo, un potere forte con cui prendersela.

Bandecchi per esempio ce l’aveva con la regione. Gli avevano detto di sì al progetto per un nuovo stadio, ma no alla clinica annessa. Così, come nel manuale perfetto degli uomini del fare, ha recuperato la bandiera di Alternativa popolare, l’ex partito di Angelino Alfano, ha scritto un programma elettorale promettendo economia, industria, sport e benessere, ha trovato i voti necessari al ballottaggio, e da domani in regione può presentarsi con la fascia. La sua, non quella del capitano. Anzi, già che ci siamo, la prossima volta dice che partirà da Terni per prendersi Perugia, e poi Roma, come una promozione dietro l’altra, fino alla Champions league della politica.

I modelli non gli mancano. Achille Lauro a Napoli fece il suo capolavoro nell’estate del 1952. Il 1° giugno vide ratificato dal tribunale un trionfo da 117mila voti alle comunali, dopo una campagna elettorale fatta di pacchi di pasta regalati al popolo. Venti giorni ancora e al popolo regalò direttamente un centravanti, lo svedese Jeppson preso dall’Atalanta per 105 milioni di lire, primo affare a tre cifre del calcio italiano. Era pure editore di un quotidiano, così poté mettersi a combattere i film che davano un’immagine distorta della città, il suo feudo, il suo reame.

È una lunga storia di usi e abusi reciproci. Il proporzionale della Prima repubblica andava a caccia di figure popolari dentro gli stadi. Dino Viola venne portato dalla Dc al Senato appena un mese dopo lo scudetto della Roma, sono passati giusto quarant’anni. Le curve votano, e quando sono felici le fai votare come vuoi.

A Bari lo hanno scoperto i Matarrese, la Fiorentina ha mandato in parlamento Cecchi Gori, con la biografia di Franco Carraro la faccenda è più complessa: non c’è mente umana in grado di ricordare su quale poltrona sedesse quando contemporaneamente andava a occuparne un’altra.

Berlusconi e Agnelli

Nulla è mai più stato uguale a prima, da quando Silvio Berlusconi chiese al suo avversario di collegio – Luigi Spaventa – quante Coppe dei campioni avesse vinto in vita sua. Il poverino era colpevole di aver speso il suo tempo a insegnare Economia politica alla Sapienza, mentre lui faceva atterrare campioni in elicottero sul prato di Milanello, con la colonna sonora di Wagner.

Ogni tanto i fatti spingono titani e minotauri a tenere una posa istituzionale. Gianni Agnelli raccontava di aver rinunciato a Maradona per non irritare gli operai della Fiat.

Non era ancora senatore, ma sindaco di Villar Perosa, leggendario comune che deve la celebrità all’amichevole di agosto Juve A-Juve B.

Anche Berlusconi nel 2002 si sarebbe addolorato, disse che gli pareva morale defilarsi dall’acquisto milionario di Nesta dalla Lazio, poi nella duplice veste di premier e presidente del Milan incontrò il suo sottosegretario Gianni Letta, il suo vicepresidente Galliani, numero uno della Lega, e tra le onde dei conflitti di interessi si manifestò la manovra Salva-calcio: la possibilità di spalmare le spese su dieci anni. Finanche l’Uefa si accorse che «la situazione italiana è anomala».

Claudio Lotito

Il signore contemporaneo dei rimbalzi anomali fra calcio e politica è Claudio Lotito, presidente della Lazio, avversario del Milan e senatore per Berlusconi. È il più diabolico king-maker di ogni manovra dentro la Lega. Fa e disfa maggioranze a modo suo. Gli archivi sono pieni di titoli in cui viene raccontato come “l’impresentabile”, ma non c’è vergine del calcio italiano che non abbia firmato patti con lui.

I giornali di Cairo si sono convertiti per ultimi, quando a febbraio fece il lobbista per conto di tutti, portando all’approvazione delle commissioni Affari costituzionali e bilancio un emendamento al Milleproproghe sui contratti dei diritti tv. Una manovra così spericolata da indurre il Quirinale a farsi sentire sulle «ragioni di merito e di metodo».

Eccolo, allora, Bandecchi da Terni, come una copia di mille riassunti. Ex parà, un tempo post-fascista coi missini, oggi si dice un po’ di tutto, liberale, centrista, fumantino, figlio di un camionista comunista, berlusconiano, anche fan di Giorgetti. Ha dato a ogni stanza in ufficio il nome di un supereroe, da Hulk a Iron Man.

Possiede una università, una radio, una tv. Possiede soprattutto una squadra. Aveva provato a prendersi quella della sua città, il Livorno, gli ultrà col pugno chiuso gli fecero cambiare idea.

Con i suoi a Terni, nel mese di febbraio, andò a discutere faccia a faccia, e piovvero sputi. Prima o poi lo dicono tutti che si deve tenere la politica fuori dal calcio. Si fa prima a portare il calcio dentro la politica.

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