La commissione Giustizia ha approvato mercoledì sera, con un accordo bipartisan, un emendamento alla proposta di legge volta a rafforzare la tutela delle donne e a riformare la fattispecie del reato di violenza sessuale. Il principio alla base è chiaro: il sesso senza consenso è stupro.

Il testo, che modifica la proposta di legge a prima firma Laura Boldrini del Partito democratico, ha ottenuto il via libera da maggioranza e opposizioni, segnando un passo importante verso una definizione di consenso in tema di violenza sessuale più in linea con le normative internazionali.

Questo testo, che dovrà essere approvato anche dall’aula, dà effettivamente il via a un cambiamento importante del Codice penale. Dato l’accordo bipartisan in commissione, non sembrano possibili cambi d’idea. «È un concetto scontato – ha affermato la deputata del Partito democratico Michela Di Biase, relatrice di minoranza – eppure in Italia manca ancora una legge che lo riconosca esplicitamente. Il consenso deve essere sempre liberamente espresso e revocabile: solo il sì è un sì».

Il concetto, così come espresso da Di Biase, è già presente nella giurisprudenza della Cassazione ma in questo modo vuole essere inserito nell’ordinamento.

Il consenso

L’articolo 609-bis del Codice penale disciplina il reato di violenza sessuale, punendo «chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni». Non c’è però un riferimento, nella norma, al concetto di consenso che invece appare fondamentale nell’inquadramento di tale atto di violenza e nella tutela della donna. Il passaggio in aula è previsto il 17 novembre. Poi, se approvato, passerà al Senato.

Protagoniste di questo accordo che viene definito storico, la presidente Giorgia Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein.

Basare la legge su un modello fondato sul consenso come libera manifestazione della volontà della persona significa eliminare dalla legislazione il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. La definizione oggi contenuta nel codice penale è sfavorevole a chi subisce la violenza perché obbliga a dimostrare di aver reagito alla violenza stessa. Ma è ormai ampiamente riconosciuto che, durante un’aggressione sessuale, la vittima spesso perde la capacità di reagire: la violenza tende a immobilizzare, a pietrificare, annullando qualsiasi possibilità di difesa o di risposta.

Porre il consenso al centro della normativa rappresenta un passaggio non solo giuridico ma anche culturale decisivo, verso una società più consapevole e rispettosa dell’autodeterminazione.

Normalizzare la violenza

A raccontare il contesto culturale in cui viviamo, il rapporto “Perché non accada. La prevenzione primaria come politica di cambiamento strutturale”, presentato giovedì 13 novembre da ActionAid, in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia. Il report contiene dati e considerazioni su come si percepiscono e come si possono prevenire le violenze e le disuguaglianze di genere in Italia.

Il risultato è allarmante: due maschi adulti su dieci giustificano la violenza fisica, mentre un uomo su tre accetta la violenza economica. Dati, questi, che assumono una consistenza maggiore se messi in relazione con il dato anagrafico: quello dei maschi appartenenti alla generazione Z e dei Millennials.

Gli over 60, rileva la ricerca, non riconoscono la violenza di genere, negandola in molti casi. I giovani invece pur riconoscendola, la normalizzano riportandola all’interno di uno schema di conflitto che ritengono naturale nel rapporto relazionale tra sessi: un uomo su quattro normalizza la violenza psicologica e verbale. Il 55 per cento dei Millennials ritiene che controllare il proprio partner sia legittimo.

Secondo il rapporto, il mancato riconoscimento della gravità della violenza di genere deriva dall’«inadeguata prevenzione primaria della violenza nelle scelte politiche italiane, a fronte di annunci e buoni propositi degli anni passati».

Negazionismo politico

Eppure, Fratelli d’Italia durante la discussione sul ddl Valditara ha negato la correlazione tra la violenza di genere e l’assenza dell’educazione sessuo-affettiva. «Si parla di personalità patologiche narcisistiche, non esiste nessuna relazione tra educazione e femminicidi», ha detto il deputato di FdI Marco Perissa. Per Katia Scannavini, co-segretaria generale di ActionAid Italia, lavorare sull’educazione «significa intervenire sulle cause profonde, non solo sugli effetti». Per questo l’organizzazione chiede «al governo e al parlamento che almeno il 40 per cento delle risorse annuali del piano antiviolenza sia vincolato alla prevenzione primaria». 

Insicurezza, genitorialità e lavori domestici

Il rapporto mette in luce anche un altro aspetto: quello della disuguaglianza di genere nelle mansioni quotidiane. Concentrandosi su tutte le disuguaglianze e gli stereotipi di genere che si riproducano in ogni ambito della società, «contribuendo a ricreare e legittimare la violenza».

I dati forniti da ActionAid testimoniano ancora una sproporzionalità di obblighi, disparità e sessismo percepito, sia nel privato che nel pubblico. Per quanto riguarda i lavori domestici, il 74 per cento delle donne se ne occupa da sola contro il 40 per cento degli uomini. Nel campo della genitorialità invece il 41 per cento delle madri si occupa da sola dei figli e delle figlie, contro il 10 per cento dei padri.

Nello spazio pubblico, le città rimangono meno accessibili e sicure per le donne: il 52 per cento delle donne ha provato paura negli spazi pubblici. Nello specifico, l’insicurezza è maggiormente diffusa tra le più giovani arrivando a toccare il 79 per cento.

Per questo, sempre secondo la Scannavini, la prevenzione primaria non si può fermare alla necessaria educazione nelle scuole, ma «deve coinvolgere le persone di ogni età, con azioni dirette a tutti gli ambiti della vita quotidiana, perché solo un cambiamento culturale può fermare la violenza maschile contro le donne».

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