Sembra passato un secolo da quando Carlo Calenda invocava un «fronte repubblicano» contro la montante marea della destra radicale, e invece era solo il 2017. Sembrano passati altrettanti anni da quando l’ex ministro diceva che un governo Meloni ci avrebbe portato «verso una situazione venezuelana», e invece era solo lo scorso settembre.

Erano parole in linea con la scommessa politica annunciata da Calenda al momento della sua discesa in campo da attore autonomo, invece che appendice di Luca Cordero di Montezemolo.

La Repubblica, diceva, era minacciata dal «sovranismo anarcoide» di Lega e M5s. Per rispondere a questa sfida serviva una forza moderata, ma sufficientemente critica con la globalizzazione, ispirata ai valori del socialismo liberale di Piero Gobetti, saldamente collocata nel centrosinistra come l’antico Partito d’azione.

Questo nuovo movimento avrebbe non solo raccolto i frammenti progressisti e i delusi dal Pd, ma sarebbe stato un tetto accogliente anche per quelle aree di centro che si sarebbero inevitabilmente allontanate dal radicalismo della coalizione di centrodestra. Oggi, di questo progetto si sono quasi perse le tracce. Invece che portare i moderati di destra a sinistra, Calenda sta portando i centristi a destra.

Cosa pensano i calendiani

L’ultimo segnale di come la strategia dichiarata da Calenda ha prodotto un risultato ben diverso da quello auspicato è un sondaggio pubblicato questa settimana da Youtrend. Il 50 per cento degli elettori di Azione/Iv apprezza il governo Meloni contro il 45 per cento che ne ha un’opinione negativa. Fuori dalla coalizione di centrodestra, l’elettorato calendiano è quello che del governo di destra ha l’opinione più lusinghiera.

Anche se Azione resta per il momento un partito essenzialmente personale, questo sbandamento non è attribuibile semplicemente alle parole del leader. Calenda continua ad essere ambiguo su Meloni e il suo esecutivo. «Mi troverò a fianco del governo sulle cose che ritengo giuste», ha detto subito dopo le elezioni, per poi descriverlo come «squadra modestissima». Calenda sente «il fascino della storia di Giorgia Meloni», ma la rimbrotta perché «credevo fosse più pronta». La incontra a Palazzo Chigi e invita la riottosa Forza Italia ad aiutare Meloni «invece di sabotarla», per poi parlare di «ombre non democratiche» e addirittura di «nazionalismo semifascista».

Sono dichiarazioni che corrispondono al personaggio: umorale, istintivo, sempre pronto a sbilanciarsi su Twitter o in un’intervista. Ma per quanto Calenda voglia tenersi aperta ogni porta, a destra come a sinistra, la situazione politica, con un Pd che a partire dalla segreteria Zingaretti continua a spostarsi lentamente verso sinistra e verso il Movimento 5 stelle, gli lascia poca scelta.

La marcia verso destra

La storia politica di Calenda e quella del suo partito Azione è quella di un lento scivolamento verso destra. Questo sbandamento è iniziato, in modo abbastanza inevitabile, con le comunali di Roma, quando Calenda ha scelto l’unica strada che gli avrebbe dato una possibilità di accesso al ballottaggio: provare a rompere la coalizione progressista rosicchiando qualche punto ai centristi di destra.

La scommessa riesce in parte: Calenda prende parecchi voti al centrosinistra e ottiene un buon risultato, ma al ballottaggio andrà il candidato di centrosinistra, Roberto Gualtieri. La campagna elettorale lascia un clima avvelenato con il Pd e Calenda prosegue con la sua strategia. Alle amministrative del giugno successivo, Calenda schiera apertamente Azione con il centrodestra a Genova, mentre i suoi alleati di Italia viva appoggiano un po’ meno apertamente la destra a Palermo. Dove si schiera con il suo simbolo, Azione si schiera contro il Pd.

Nelle settimane successive, con la caduta del governo Draghi, avviene il più importante di questi passaggi, con l’ingresso in Azione di una nutrita pattuglia di ex Forza Italia, tra cui la più importante è Mariastella Gelmini, che sarà presto nominata vicesegretaria e portavoce nazionale.

L’impatto di Gelmini si vedrà in particolare in Lombardia, dove l’ex ministra di fatto commissaria il coordinatore regionale Niccolò Carretta, che arriva dal Pd (e che si dimetterà dopo la batosta), e in vista delle regionali impone nelle liste una buona fetta dell’ex classe dirigente locale di centrodestra. La scelta di candidare alla regione Letizia Moratti è il culmine di questa strategia. Il nuovo Partito d’azione gobettiano ha definitivamente cambiato pelle.

L’esame dei flussi elettorali di quelle regionali è la pietra tombale sul progetto di fronte repubblicano progressista. Solo il 4,6 per cento degli elettori del Pd scelgono Letizia Moratti e Azione, mentre sono quasi il doppio quelli che fanno la scelta da Forza Italia. In ogni caso troppo pochi per poter parlare di buon risultato.

Calenda voleva creare una grande coalizione progressista e moderata in grado di attirare voti dal centro. Si è ritrovato con un partito in cerca di voti e identità, più a destra di quanto non sia lui stesso e scalato dall’interno da personale politico ben più abile dei suoi seguaci della prima ora. Sembra ormai tardi per salvare il progetto socialiberale. E forse lo è anche per salvare il futuro politico dello stesso Calenda.

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