C’è qualcosa di pericoloso dietro questo ricorrere dell’idea della “riconciliazione” che molti, anche a sinistra, non sembrano disdegnare con sufficiente fermezza. Come se oggi ribadire le nefandezze che il fascismo compì fosse “illiberale” e l’antifascismo fosse “di parte” e, quindi, altrettanto stigmatizzabile.

Il fascismo andò al potere grazie alla violenza degli squadristi che la perpetrarono sistematicamente su sindacalisti, attivisti delle leghe delle cooperative, militanti socialisti e comunisti, ma anche cattolici, condizionando le elezioni del 1921 e – una volta ottenuto il potere – quelle del 1924. E divenne dittatura, con le leggi “fascistissime”, i partiti fuorilegge, gli oppositori incarcerati, anche tra i deputati che pure dovevano godere dell’immunità parlamentare, che furono confinati o perirono in carcere, se non sotto i colpi dei sicari. Finché non furono emanate leggi “razziali” e l’Italia fu portata in guerra. Furono chiamati alla leva obbligatoria migliaia di giovani, mandati a morire nei Balcani o in nord Africa o, ignominiosamente, in Russia. I quali, il giorno in cui venne annunciato l’armistizio con gli anglo-americani, lasciati allo sbando, con i tedeschi che già occupavano la penisola, dovettero nascondersi per non essere deportati in Germania (e furono più di 600mila).

Il fascismo fu un regime impostosi con la violenza, che fece del sopruso la sua cifra. Sostenuto dalla borghesia agraria e industriale, tollerato dalla maggioranza, il ventre molle del paese che ne fu succube e complice. Dopo l’8 settembre 1943, furono i partiti antifascisti a uscire dalla clandestinità e a lanciare la Resistenza. E furono le migliaia di giovani che vi aderirono che la combatterono sul campo, per una scelta che fu morale, prim’ancora che politica, come ricordava Claudio Pavone. Partigiani di ogni colore politico ma tutti antifascisti, intellettuali, studenti, operai e contadini.

I “ragazzi di Salò”

E i “ragazzi di Salò”? Solo una piccola parte aderì all’esercito di Rodolfo Graziani, ministro della uGerra della Repubblica sociale, richiamati alle armi dai famigerati bandi (per i renitenti c’era la fucilazione). I più andarono, volontariamente, nella Guardia nazionale repubblicana – creata per accorpare i carabinieri con la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale – che arrivò ad arruolare fino a 140mila uomini o nelle Brigate nere – un corpo volontario, istituito il 30 giugno 1944 – che ne ebbe fino a 110mila.

Furono questi i corpi che si macchiarono di orrende violenze ed eccidi, da soli o in appoggio ai nazisti. Quei miliziani erano fascisti convinti, se non fanatici, che scelsero volontariamente di stare dalla parte del Duce e dei nazisti, con cognizione di causa. Non giovani mandati a morire come erano stati i soldati durante la Prima guerra mondiale, «senza sapere nulla del nemico», ma giovani che avevano scelto di stare dalla parte dei crudeli occupanti e del loro delirante duce.

Tra i partigiani resistenti furono migliaia i caduti, spesso neppure in combattimento ma perché catturati, incarcerati e torturati con sadismo. Perché tanta violenza, viene da chiedersi, se non un’accecata ideologia di morte? Le stragi sui civili, per rappresaglia, il carcere, le sevizie, le fucilazioni furono parte di una precisa strategia di guerra. Come i quindici uccisi a piazzale Loreto dai fascisti della Muti per essere lasciati esposti, come carogne.

Dopo la fine del conflitto diversi furono incarcerati ma nessuno, se non qualche gerarca, fu giustiziato. L’Italia non fece i conti con il fascismo e quei delitti, non ebbe la sua Norimberga, come ha ricordato Emanuele Felice su questo giornale lo scorso 26 aprile.

Le centinaia di miliziani che compirono orrende violenze non furono perseguiti e, quando lo furono, poterono spesso godere dell’amnistia di Palmiro Togliatti, che fu pensata come un gesto di “pacificazione” e che finì per far stendere un velo pietoso su mille efferati crimini compiuti a sangue freddo durante la guerra. Come non furono perseguiti e rimossi i tanti che resero il regime possibile, funzionari di alto livello, membri dell’amministrazione pubblica, della magistratura e delle forze dell’ordine.

Il neofascismo

I fascisti persero la guerra che i peggiori di loro avevano contribuito a rendere feroce. I tedeschi firmarono la resa a Caserta il 2 maggio 1945, i fascisti no. Si dileguarono, a cominciare da Graziani, che diverrà presidente del Msi (nonostante fosse stato dichiarato criminale di guerra dall’Onu, con estradizione negata dall’Italia nel 1949). E né loro né i loro epigoni hanno mai accettato di avere perso.

Nel dopoguerra, pur di arginare i comunisti, la Dc in più di un’occasione accettò il sostegno del Msi. La Resistenza e le sue feste divennero prerogativa delle sinistre, mentre la D si curò l’elettorato monarchico e nostalgico, che non sparì mai. Fino agli anni Settanta, quando in seno al Msi trovavano spazio i nuovi squadristi del Fronte della gioventù (con a capo Gianfranco Fini).

Nel neofascismo non si è mai spento il sogno della rivincita, accanto all’idea che come si celebravano quelli che avevano combattuto la Resistenza, così andavano onorati quelli che vi si erano opposti. Invece di accettare la sconfitta – militare, ideologica, morale – hanno sempre sostenuto che anche loro avevano lottato, per non si sa quale tipo di Italia, e quindi andavano ricordati. E oggi vogliono far passare il concetto che, essendo la nostra una democrazia, tutte le opinioni sono accette, e quindi anche il fascismo deve avere una sua legittimità. E se gli antifascisti hanno qualcosa da dire, allora vuol dire che sono illiberali. Dimenticando che, proprio per la vastità delle violenze e dei crimini commessi, questa Repubblica è nata con una Costituzione liberalissima, ma che vieta la formazione di un unico partito, quello fascista.

L’aver accettato, in questi ultimi trent’anni, che non siano più i “partiti dell’arco costituzionale” (o i loro eredi) i depositari del mandato democratico e che anche i fascisti e i loro epigoni dichiarati o nascosti abbiano diritto di cittadinanza è stato un grave errore. Non perché, ovviamente, non sia giusto andare oltre, suturare antiche ferite, ma perché da questi non è mai arrivata una parola di pentimento e condanna su quei crimini, quelle ingiustificate violenze, quelle atrocità di cui i fascisti – non i nazisti – si macchiarono le mani.

Vadano a Forte Bravetta, a piazzale Loreto, in piazza Nettuno, ai poligoni di tiro di Bologna e Torino, vadano nei mille luoghi in Italia dove una lapide ricorda un giovane torturato e morto per mano fascista, accettino che essere stati da quella parte è stato un grave errore e gravissimo fu il torto arrecato alla nazione. E non si sbandieri più questa stupida idea della “riconciliazione” quasi a voler dire che abbiamo esagerato e che, poverini, vanno riammessi nella comunità nazionale. Nessuno di quelli va onorato o ricordato: che siano cancellati dalla memoria, visto che nella Storia vi rimarranno per sempre. Fascisti e antifascisti pari non sono, come ci ha ricordato Nadia Urbinati il 28 aprile. Noi la pace l’abbiamo ottenuta già – e non grazie a loro – e la pacificazione c’è già stata per chi quella pace ha voluto e accettato.

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