È stato il leader di Azione Carlo Calenda a decidere di cancellare il progetto del Terzo polo e del partito unico con Italia Viva. Ma, come ammettono perfino i suoi fedelissimi, Matteo Renzi ci ha messo del suo. Accettare la direzione del Riformista, ad esempio, comunicarlo a Calenda soltanto poche ore prima dell’annuncio pubblico, chiamare a co-dirigerlo un ex parlamentare di Forza Italia come Andrea Ruggieri, sono state tutte mosse di sofisticata perfidia per provocare il suscettibile alleato. Se alla fine è stato Calenda a decidere l’accelerata, Renzi ha fatto di tutto per portarlo all’esasperazione. Come con quell’urticante accenno alle «dosi di pillole sbagliate» fatto arrivare ai giornali la sera dell’ultimo tentativo di conciliazione, che a Calenda brucia ancora. «Non faremo una lista insieme alle europee – ha detto ieri Calenda ancora su tutte le furie – Renzi ha detto di me che sono uno squilibrato. Io non ho mai usato insulti personali».

L’ex sindaco di Firenze ha aggiunto così un’altra tacca alla lunga lista di leader, esperienze e progetti politici che ha contribuito a fare a pezzi. A volte, per raggiungere obiettivi politici. Ma sempre più spesso per quello che sembra più che altro un nichilistico istinto alla distruzione. 

Piramidi di teschi

Si dice che gli antichi conquistatori mongoli erigessero intere piramidi con i teschi di chi osava resistergli. La testa di Calenda è solo l’ultima ad adornare la metaforica piramide di “Gengis Renzi”. Il primo a incontrare un destino simile è stato Pier Lugi Bersani. L’allora segretario del Pd viene azzoppato dal fuoco amico renziano nel 2012, quando viene praticamente costretto a cambiare lo statuto del partito per consentire a Renzi di partecipare alle primarie di coalizione. Pochi mesi dopo arriva la «non vittoria» alle politiche 2013 e poi il colpo di grazia dei famosi 101 durante il tentativo di eleggere Romano Prodi al Quirinale.

Tra le vittime di Matteo Renzi, Enrico Letta è forse il più noto, decapitato senza complimenti dopo l’ormai leggendario #enricostaisereno. Restando in campo Pd non ci si può dimenticare di Nicola Zingaretti, primo segretario eletto dopo Renzi. Le ragioni delle sue improvvise dimissioni dalla carica sono ancora avvolte nei fumi del retroscenismo, ma nel processo di esasperazione che lo ha portato alla scelta di lasciare non si può ignorare la lunga mano che il renzismo all’epoca stendeva sui gruppi parlamentari del Pd. Non possiamo neppure tralasciare Giuseppe Conte e il suo secondo governo, eliminati con una delle operazioni che a Renzi hanno dato maggiori soddisfazioni.

Ma in questo elenco c’è un personaggio che viene spesso dimenticato ed è nientemeno che Silvio Berlusconi. Sedotto con il famigerato patto del Nazareno, che lo cementava insieme a Renzi nel ruolo di nuovo padre della patria e tutore della riforma della costituzione, Berlusconi è stato poi abbandonato bruscamente con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. 

Lo spartiacque

Ma la cosa più importante e significativa che Renzi è mai riuscito a distruggere è la sua stessa riforma della Costituzione. Rompere il patto del Nazareno su Mattarella è il primo gradino che porta verso questa vera e propria autodistruzione – che segnerà un vero e proprio spartiacque nella sua carriera politica e personale.

Renzi prima si perde Berlusconi poi si lascia dietro anche un pezzo del suo stesso partito. Anche se le regionali del 2015 avrebbero dovuto dargli la sveglia, si sente ancora al massimo della popolarità e ritiene che il modo migliore di assicurarsi la vittoria al referendum costituzionale sia di trasformarlo in un plebiscito su di lui. La maggioranza degli italiani, pensa, non potrà non riconoscere la bontà della riforma e non accetterà mai il rischio di perdere il suo genio politico. Così annuncia che si ritirerà dalla politica se il referendum non passerà.

Il voto finisce come sappiamo e Renzi si dimette. In un colpo solo riesce così a distruggere il suo governo, la sua leadership nel Pd e il più ambizioso progetto di riforma della Costituzione mai presentato.

Guardare il mondo bruciare

Fino a questo momento l’ansia renziana di distruzione è stata quasi sempre legata al tentativo di creare qualcosa. Renzi si muove con il tatto di un cinghiale. Provoca, spacca e rottama, ma con un obiettivo in mente. Cerca di fare a pezzi la “ditta” Pd perché vuole creare un partito nuovo e dinamico. Vuole stracciare mezza Costituzione per entrare nella storia come nuovo padre della patria. È la sua fase schumpeteriana di distruzione creatrice. La notte del 4 dicembre, però, qualcosa si spezza. Il paese ha rigettato il suo genio. D’ora in poi Renzi penserà solo a fargliela pagare. 

Dopo il disastro del referendum, Renzi vuole dimettersi subito e lasciare il paese senza governo proprio nelle delicatissime settimane in cui bisogna approvare la manovra economica. Si rischia per la prima volta l’esercizio provvisorio in 30 anni? Tanto peggio tanto meglio. Ci vuole l’intervento di Mattarella per persuaderlo a restare qualche altra settimana.

Da quel momento, la strategia politica di Renzi sembra ispirata direttamente ai troll di internet che lo sostengono. Le sue mosse diventano incomprensibili se non si prende atto del fatto che Renzi è ormai disposto a danneggiare sé stesso pur di far infuriare i suoi avversari. Come interpretare altrimenti la recente scelta di accettare, tra tutte le offerte di lavoro che riceve un ex capo di governo, proprio quella di un regime odioso e assassino come quello saudita?

Come spiegare altrimenti il fatto che al congresso del 2017, convocato con tempi accelerati, contro il consiglio di tutti e in contraddizione con la sua stessa promessa di lasciare la politica, Renzi guarda senza alzare un dito il Pd arrivare a un passo dall’autodistruzione, con la fuoriuscita di Bersani e di un pezzo della sinistra di partito.

Durante la successiva campagna per le politiche del 2018, Renzi sembra addirittura intento a trollare i suoi stessi elettori. Non si propone nemmeno più come leader, ma va in televisione a magnificare le doti quasi miracolose di Paolo Gentiloni, persona degnissima ma non proprio un trascinatore di folle. Come prevedibile, il voto si conclude con il peggior risultato mai ottenuto dal Pd nella sua storia. Alla conferenza stampa la mattina dopo la sconfitta, Renzi si presenta con un sorriso mefistofelico. Prima di dimettersi per la seconda volta in poco più di un anno, decide di dare un ultimo colpo di maglio a quello che ancora per poco sarà il suo partito. Mette il veto su un’alleanza con il Movimento 5 stelle, spalancando così le porte al governo giallo-verde.

Schadenfreude

«Dopo di me il diluvio», diceva Luigi XV. Renzi il diluvio sembra volerlo provocare con le sue mani. E pace se finiranno affogati amici, alleati e sostenitori. In questi giorni, il crack del Terzo polo porta con sé anche tutti quei facoltosi imprenditori che sul progetto ci avevano scommesso. Da Lupo Rattazzi, che nel 2022 ha versato 100mila euro ad Azione e altrettanti a Italia viva, all’amico Davide Serra, che sul progetto dei due partiti ne aveva scommessi quasi 90mila. Per non parlare di tutti i parlamentari e amministratori locali che lo hanno seguito in Italia viva e che ora guardano smarriti alle prossime elezioni, con la certezza che Italia viva da solo non può superare nessuna soglia di sbarramento.

La morale di questa saga non può che essere affidata allo stesso Renzi a cui, tra i molti difetti, non si può negare una peculiare forma di candore. «Qual è il suo peggior difetto?», gli ha chiesto alcuni anni fa Giovanni Minoli. «Talvolta sono troppo cattivo», ha risposto Renzi. Talvolta.

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