*Lo scrivente questo intervento propone un terzo passo a una riflessione iniziata con il primo numero di Politica, dopo avere discusso il potere che deriva dall'abdicazione e la prospettiva dell’area “Democrazia”. Non sfugge all'autore il carattere eterodosso di quanto si va scrivendo. Certamente non si tratta di articoli di giornale. Se fosse un romanzo, sarebbe un feuilleton, che si snoda di puntata in puntata sullo stesso quotidiano. Non essendo un romanzo, non manca tuttavia di essere un libro, i cui capitoli sono finora stati pubblicati di mese in mese.

«Deserta d’uomini è la grande città».

Con questo verso compie il suo esordio nella storia umana la tragedia: un massacro di turbe immani, uno schianto di macchine da guerra, un trionfo della devastazione. I persiani di Eschilo, rappresentato ad Atene nel 472 a.C., è infatti il primo testo teatrale europeo a giungere a noi posteri.

A Salamina l’alleanza delle città elleniche sconfigge il grande imperatore persiano e tutta l’Asia crolla. Ma crolla davvero? Il dittatore ha osato troppo, eppure aveva tutti i pronostici a favore, le miriadi armate di cui disponeva avrebbero prevedibilmente schiantato il nemico greco. Il teatro sostituisce ogni epica, acutizzandola. La madre dello sconfitto è vedova in tutto: del marito, del figlio, del regno. Consiglieri politici anzianissimi inaugurano il coro, evocando dalla tomba il demone del tiranno predecessore, il padre dell’attuale andato incontro alla sconfitta.

Il predecessore amministrava il regno e conduceva guerre sicure, anziché osare conquiste e disturbare i confini incerti che lo separavano dalla proposta politica più rivoluzionaria che l'uomo potesse inventarsi: la democrazia. «Leggi solide come torri reggevano tutto» e ora non più. E il destino della dittatura non sarà forse identico a quello della democrazia? A un certo punto è sfinita la guida politica, demos o dittatore non importa, e si dimostra insufficiente. Servirebbe forse che intervenisse un ulteriore dittatore o un istituto democratico, pacificante, dal piglio istituzionale e non politico, a sollevare le cose umane dal peso di scelte sbagliate. All’umano è insopportabile il peso: della guerra, come della libertà; della responsabilità, quanto del dolore.

Disordine senza disciplina

La politica sta sperimentando oggi un passaggio storico fatale. Poiché l’umanità è definitivamente entrata in una nuova fase (che è possibile qualificare secondo determinati parametri: da quello tecnologico all’interconnessione mondiale, dalla catastrofe climatica all’esondazione della specie su un pianeta alieno, dalla mutazione definitiva del corpo biologico al crollo della distinzione tra popolo e popolazione mondiale, dall’impotenza delle parole all’esudare dello spettacolo ovunque in ogni istante, e così via), noi osserviamo attoniti che non c’è più configurazione politica che regga e sia capace di interpretare e gestire ciò che accade.

A ogni decisione politica, un risultato esiziale. L’autocrazia esprime incapacità, tanto quanto le democrazie o i regimi non partecipativi, i maggioritari così come i minoritari, i proporzionali o gli assoluti, le leadership personali e collettive. L’assenza di modello è sconcertante, ma a maggior ragione lo è, se si comprende che non è più questione di configurazione politica: qui e ora si manifesta la splendida e tragica limitatezza di un’invenzione che dura da sempre: la politica, appunto.

C’è un’impressione di caos, ma manca una disciplina caotica. Interpretare appare insufficiente, così come pensare politicamente. Ogni vittoria è una sconfitta. Scendiamo in quella forma di avanguardia perenne che è l’Italia. Il premier Mario Draghi è stato deposto o si è deposto? Non avere più carica significa che non stia più facendo nulla negli equilibri europei e mondiali? Si è mai misurata una vittoria tanto triste, quanto quella di Giorgia Meloni? La leader è davvero leader? Il popolo italiano ha scelto davvero in termini elettorali, se è vero che sta governando una minoranza? La guerra alla migrazione è tale davvero? È possibile che esista una guerra alla migrazione? C’è un manganello e gli italiani esultano? Il continente è tale? Quali sono i confini dell’Europa? Un’atomica tattica non è più un’atomica? La luna di miele del governo è forse preludio al divorzio? E, dopo molti divorzi, non diremo forse che il matrimonio è una forma indifferente della realtà, perché ciò che conta è l'amore? Ma quale amore suscita la parola politica oggi?

La vedovanza della politica

Per fare un esempio di ciò che qui si intende non come semplice crisi della politica, ma definitiva secondarietà della politica stessa, è possibile assumere il titolo di apertura del più diffuso quotidiano italiano, nella sua versione online, nell’istante in cui queste parole vengono qui scritte. Recita il titolo: Via alla Cop27: assenti i grandi inquinatori Xi e Modi. Cosa non succederà. Le scelte politiche ci dicono questo: cosa non succederà.

La realtà, invece, ci dice altro: sappiamo benissimo cosa succederà. E lo sappiamo perfettamente, perché già lo vediamo accadere. E lo vediamo accadere, perché riguarda il pianeta. Non una parte, uno stato, un continente: l’intero pianeta. Quando la polis è parte dell’intero pianeta, la politica può soltanto pronunciare una parola planetaria. Ma non è in grado di farlo. Non può pronunciare parola, perché è il pianeta stesso a pronunciarla, a dettare l’oggettività del corso delle cose, a determinare che l’azione umana lo segua. Se non lo segue, ne va della vita della specie.

Eschilo, scrivendo e rappresentando I persiani, compie molteplici rivoluzioni. Fonda il teatro, ma aggredisce l’insufficienza della politica. Non vengono cantati il trionfo della democrazia o la sconfitta della dittatura, bensì le conseguenze della sconfitta, gli attimi dopo la sconfitta, l’impressione che il re deposto non sia più re, da ora in poi per sempre. La tragedia è tale, la politica è tale.

Vedovanze allucinate, sogni in forma di incubo, deità che sono demoni, morti viventi, viventi ormai morti, il responsabile della sconfitta che è nuovamente re e non lo sarà più, tutte le passioni tristi al culmine dell’entusiasmo, un’unica memoria altissima in cui ogni cosa è fondamentale.

L’importante importa?

Osserveremo cautamente che la situazione eschilea è di fatto identica a come stiamo vivendo la storia oggi, cioè il momento più pericoloso per la specie sul pianeta che essa abita e da cui è abitata. A differenza di ciò che inaugurò Eschilo, attualmente non disponiamo della pienezza profetica della parola, della forza di ciò che è stato il teatro, della potenza energetica della preghiera: non disponiamo della numinosità di ciò che portemmo dire: l’importante. L’importante importa a qualcuno? È il momento in cui non i singoli, non le comunità, ma l’intera specie può avvertire la pressione clamorosa di ciò che è importante.

E tuttavia, impotente e polverizzata, inascoltata da chiunque per disattenzione e mancanza di interesse, la parola c’è e quindi c’è la politica. In una forma istituzionale rattrappita ed essenzializzata, ma capace di esercitare una pressione assoluta sulla realtà. Chi pronuncia poche parole, ma pesanti e colme di senso, risponde al monito dell’imperatore evocato dal regno dei morti: «Poiché sono accorso dall’aldilà ai tuoi lamenti, non mi parlare con frasi lunghe, ma con brevissime parole: il tuo discorso sia pieno e l’ossequio non ti sia di freno».

Quando non la vita vivente esegue il rito democratico, ma un’inerzia ubiquitaria che pare inesplicabile e che risulta indifferente a qualsiasi Salamina, allora noi siamo come acqua versata, sono slogate tutte le nostre ossa, il nostro cuore è come cera, arido come un coccio il vigore, la lingua si è incollata al palato, ci si sente deposti su polvere di morte. Ma il pianeta annuncerà il proprio nome alle nostre sorelle e ai nostri fratelli, si loderà da sé stesso in mezzo all’assemblea.

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