«Nessuna domenica contiene la stessa promessa, né l’energia del giorno che la precede», scrive Ian McEwan in Saturday, il romanzo del 2005 dedicato a una giornata particolare della storia inglese e mondiale, il sabato 15 febbraio 2003, quando tutto il mondo scese in piazza per protestare contro l’imminente inizio dell’intervento americano in Iraq con l’alleato Regno Unito.

Si scrisse allora che il movimento della pace, con la bandiera arcobaleno, si era trasformato in soggetto politico globale, il più potente, pur non contando su un apparato militare e economico. Ma non servì a evitare il conflitto e le sue conseguenze disastrose di medio e lungo periodo.

Qualcosa del genere si è tornato a scrivere nel 2019 dei Fridays for Future, i ragazzi e le ragazze in campo per protestare contro l’inerzia dei governanti di fronte agli effetti devastanti del cambiamento climatico.

Oggi la scelta di Greta Thunberg di non andare alla Cop27 e di «lasciare il megafono ad altri» è sembrata come un precoce ritiro. Anche se non è così – il movimento dei giovani in lotta per l’ambiente è senza leader riconosciuti e molecolare, collettivo, come i nodi della rete, dunque contemporaneo – è vero che a Sharm el-Sheikh è andato così in scena il vertice sul clima più recintato degli ultimi anni, con le ong impossibilitate a manifestare, il divieto di protesta, in uno stato retto dal regime militare di un generale golpista.

Paradossale irrilevanza 

La mobilitazione a Londra contro la guerra in Iraq (AP)

Gli ultimi venti anni ci consegnano un paradosso, la crescita dei movimenti e la loro irrilevanza sulle scelte della politica.

Il recinto più difficile da scavalcare, il muro da abbattere è la separazione che si è consumata in questi anni tra le due sfere, i non-governativi e i governi, la moltitudine che si mobilita sulle singole questioni, il clima, la pace, i diritti civili, e la politica ufficiale e istituzionale che segue un’agenda diversa.

Una frattura cui si devono aggiungere, negli ultimi anni, la crescita dei populisti che ha significato anche questo: fine dei corpi intermedi, rapporto diretto tra il capo e il popolo, considerato come un insieme di singolarità, di rabbie, rancori, frustrazioni, gli stati nervosi indagati da William Davies.

Lo dimostrano le ultime elezioni di midterm americane, dove l’onda repubblicana è stata fermata ma con la maggioranza dei candidati repubblicani che ha negato o messo in dubbio la vittoria di Joe Biden del 2020. Un elettorato invecchiato, in schiacciante maggioranza bianco, prevalentemente insoddisfatto o arrabbiato.

Il cittadino-elettore senza territorio, senza classe, senza appartenenza, così come si manifesta sui social, emotività, reattività, è stato il terreno di caccia, il boccone prelibato dei neopopulismi e dei sovranismi europei che coprono il vuoto con il richiamo alla tradizione e alla difesa dei confini nazionali.

I movimenti degli ultimi anni da spinta al rinnovamento della politica, un altro mondo è possibile perché un’altra politica è possibile, si diceva a inizio secolo, tra Seattle e Genova, hanno finito per partecipare (inconsapevolmente) alla dinamica populista.

La sfiducia verso la politica e nei confronti delle istituzioni, incapaci di rappresentare e di decidere, ha saldato le rivendicazioni più radicali alla narrazione populista che spingeva nella stessa direzione, ma con obiettivi opposti: la verticalizzazione del potere, la concentrazione in poche mani.

Radicali e frammentati 

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Oggi, con la destra al governo in Italia, si assiste a una ulteriore radicalizzazione, soprattutto nel mondo giovanile. Le azioni del gruppo di Ultima generazione, dai blocchi stradali alla zuppa lanciata contro le opere d’arte, sono il segno che il distacco si sta allargando. Sono finite le buone maniere, la finzione dei grandi della Terra che ascoltano i giovani sull’apocalisse ambientale.

Questo è il momento della rivolta contro l’indifferenza dei governanti mascherata da buoni sentimenti, il greenwashing dei vertici politici. Il rivoltarsi è un gesto in sé e chiama la repressione, due dimensioni che si tengono sempre compagnia.

Tra i giovani c’è la frammentazione, tipica della rete. Il gesto che si chiude in sé, da condividere e da rilanciare sui social. Ma non c’è solo la lotta per l’ambiente. In molte scuole italiane, tra gli studenti, cresce ad esempio l’avversione verso gli strumenti dell’alternanza scuola-lavoro, il Pi-ci-ti-o, come i ragazzi nelle loro assemblee scandiscono il Pcto, l’acronimo che sta per percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento, si denunciano lo sfruttamento, le condizioni di insicurezza sul lavoro (Giuliano De Seta, morto sul lavoro, è quasi un’icona e anche Giorgia Meloni lo ha citato nel discorso sulla fiducia), la perdita di ore di studio catturano l’attenzione ben più che il generico diritto allo studio.

Su ambiente e lavoro, e pace, i ragazzi e le ragazze italiane sono molto più arrabbiati e inquieti dei loro fratelli più grandi. È di nuovo una domanda di partecipazione che non trova riscontro nelle forme tradizionali della politica.

L’incognita italiana dei prossimi mesi, il 2023, è come saranno giocate queste braci che ardono sotto la cenere del desolante dibattito culturale e politico italiano. Bisognerà vedere se il fuoco dei movimenti troverà uno spazio di ascolto o resterà non rappresentato. E se la destra proverà a spegnere i focolai di radicalizzazione o finirà per alimentarli, anche in modo indiretto.

Una piazza senza casa

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I fratelli maggiori o i padri e le madri si sono ritrovati in piazza il 5 novembre, alla manifestazione per il cessate il fuoco in Ucraina, tra i «corpi di pace», come li ha definiti il quotidiano della Cei Avvenire. Tra le indicazioni più interessanti c’è quella del segretario della Cgil Maurizio Landini, estendere il modello della manifestazione per la pace in Europa. Con i movimenti giovanili condividono una condizione apolide, sono senza casa politica, senza punti di riferimento. In una società che ha fatto parlare di volta in volta di fine dei partiti, di scomparsa dei sindacati, ma anche di eclisse del mondo cattolico organizzato.

Eppure i movimenti e le associazioni viste in piazza San Giovanni appartengono a quella storia. Una storia in cui il rapporto con la politica era il pane quotidiano, il canale più importante. Con la politica e con i rappresentanti nelle istituzioni, i consigli comunali, regionali, il parlamento nazionale, si intrecciava un corpo a corpo, una ricomposizione complicata di interessi e di valori, la mediazione, parola quasi estinta.

Per i partiti della sinistra, per il Pd che si avvia a congresso, è un problema in più. Non sono riconosciuti come interlocutori dai nuovi movimenti. Devono affrontare la concorrenza di un leader come Giuseppe Conte che si pone come costruttore di una nuova sinistra ma con un rapporto diretto con l’elettorato che scavalca il lavoro sui territori, una dinamica populista. E la loro tradizionale base di consenso, dal sindacato al reticolo di associazioni che si riconoscono nel cattolicesimo sociale, nella galassia pacifista e ecologista, si è ristretta e al tempo stesso è in cerca di nuove forme di rappresentanza.

Tutto questo magma potrebbe costituire una straordinaria opportunità. Ma serve una politica capace di ascoltare e di mediare, senza complessi di inferiorità, consapevole del proprio ruolo, che non è né l'inseguimento delle rivendicazioni di piazza né la chiusura nel fortino di palazzo. È la storia di questi venti anni, nel centrosinistra. Il mito fondativo delle primarie del Pd alludeva a questo incontro, tra la società e la politica, fusi tra loro nei gazebo. Un mito, certamente, un’allusione, la suggestione di un incontro da cui far scaturire una novità. La speranza si è rapidamente esaurita.

Fuori dal recinto

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L’incontro tra i partiti e i movimenti non si è più ripetuto, non ha contenuto la promessa e l’energia delle battaglie che lo hanno preceduto, come la domenica con il sabato. Negli ultimi anni i mondi sono tornati a chiudersi nei loro rispettivi recinti: i partiti, il Pd, è diventato più oligarchico, pur restando un partito in apparenza contendibile e non personale, a differenza di tutti gli altri, i movimenti sono diventati più autoreferenziali, meno allegri, più ossessivi. E più irrilevanti, dunque più rabbiosi, rancorosi. Come si vede nei talk televisivi e perfino negli elenchi delle cose da fare che scrittori, sceneggiatori, psicanalisti, hanno esibito come consigli non richiesti per il Partito democratico. Da raccogliere e conservare, perché fotografano bene non solo la dissoluzione del partito ma in una certa misura anche del contesto che lo circonda: l’assenza del pensiero, la fine dell'intellettuale che vorrebbe un rapporto con la politica senza essere in grado di esprimere un pensiero politico che non sia un'indicazione toponomastica (ripartire dalle periferie, dai quartieri, dai territori) o di metodo (partito aperto, semi-aperto) o un’invettiva (sciogliersi, azzerrarsi).

Con questi intellettuali, oltre che con questi dirigenti, non vinceremo, non vinceranno mai. Serviranno i nuovi politici, i mediatori tra le spinte della società, sempre più frammentate, e una visione generale che tiene insieme le forze in campo. I movimenti fuori dal recinto. Le promesse e le energie del sabato, da mantenere quando verrà la domenica.

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