Dal Def al Pnrr, dalle concessioni balneari alla riforma delle pensioni. Più che un governo del fare, come ama recitare lo storytelling di Giorgia Meloni, è sempre più un governo del rinviare, stando ai fatti. Vedendola su un altro versante, l’Italia dei “sì” che Matteo Salvini propaganda in tour, da nord a sud, è l’Italia del “vedremo”.

Nel menu di palazzo Chigi e del ministero dell’Economia c’è una vera specialità della casa: il piatto del rinvio. C’è una sapienza da MasterChef nel mescolare gli ingredienti giusti per rimandare le decisioni in attesa di un futuro salvifico, della ricetta magica; o in alternativa tentando di far cadere le responsabilità su chi viene dopo.

Il gran ballo del Def, diventato una sorta di “non Def”, è una cristallina fotografia dell’indecisionismo firmato Meloni-Giorgetti-Salvini. Il Documento di economia e finanza non delinea alcunché. Rimanda tutto a data da destinarsi. Nel testo diffuso ieri c’è la concezione di fondo: l’Italia vuole chiedere un rientro in sette anni per l’aggiustamento della finanza pubblica. Come? Ancora non è dato sapere.

Nel documento ci sono comunque alcuni dei numeri attesi. Su tutti il debito pubblico che nel 2025 è destinato a sfondare il tetto dei 3mila miliardi di euro, raggiungendo i 3.224 miliardi nel 2026 e i 3.306 miliardi nel 2027. Il governo garantisce che vuole portare il deficit «al di sotto del 3 per cento del Pil entro il 2026, come previsto nella Nadef», si legge nel documento.

Mentre per le pensioni la spesa crescerà «del 5,3 per cento nel 2024 e del 2,5 per cento in media all’anno nel triennio 2025-2027». E ancora: «La pressione fiscale si riduce nel 2024 al 42,1 per cento» per «risalire nel 2025 al 42,4 per cento». Dati, insomma, e nient’altro. Come ampiamente previsto nel Def versione light.

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha fatto sapere, anche un po’ infastidito, che la pratica di un documento interlocutorio non è così anomala né ascrivibile solo a governi dimissionari. Così fan tutti, in sintesi. Con l’ammissione implicita che la destra meloniana non ha portato alcuna rivoluzione: segue la scia degli altri.

Soliti rinvii

Intanto l’antipasto dell’arte dilatoria, esplicato dal Def, era già stato servito con la prima manovra del governo Meloni, che conservava l’impianto della legge di Bilancio predisposto dall’esecutivo di Mario Draghi prima di salutare palazzo Chigi. In quel caso il fattore-tempo rappresentava una valida giustificazione: era difficile fare qualcosa di diverso. Ecco, perciò, che l’attesa si è concentrata sulla manovra più recente, varata a dicembre. La prima vera finanziaria firmata dalla leader di Fratelli d’Italia con la regia di Giorgetti, tramutatasi in una sorta di Bignami di sospensione temporale. Il provvedimento conteneva slittamenti e rinvii.

Un esempio è la proroga del taglio del cuneo fiscale, misura introdotta già nell’anno precedente. Prevista appunto da Draghi, ereditata da Meloni e rinnovata a tempo. Tanto che adesso si ripropone la necessità di rinnovare l’intervento, secondo quanto prescritto dal Def.

I soldi? Si vedrà. «Sono al Mef da tanti anni e puntualmente ad aprile mi chiedono delle risorse per il cuneo e poi a novembre puntualmente si trovano», ha promesso il sottosegretario all’Economia, Federico Freni, facendo training di ottimismo.

La grande dilazione

Nell’apoteosi dei posticipi, si scaldano i motori per la madre di tutte le dilazioni, quella sui tempi di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Fin dal primo momento il Pnrr aveva una certezza: la deadline nel 2026. Nessuna deroga. «Serve una proroga ragionevole», ha detto Giorgetti, motivando il discorso con la necessità di «fare bene e non in fretta».

Il governo fa capire di essere in affanno sul rispetto delle scadenze indicate per la realizzazione dei lavori. E dire che la riscrittura del Pnrr, operata dal ministro Raffaele Fitto, è stata dettata proprio dalla necessità di non andare fuori tempo massimo. Pena l’impossibilità di impiegare tutte le risorse economiche europee. Centinaia di progetti sono stati stralciati perché non potevano rientrare in quella tempistica.

Certo, la commissione, con Paolo Gentiloni, ha escluso la deroga sui tempi del Pnrr. Aprendo un nuovo fronte di tensione con il governo. Intanto, c’è chi in parlamento solleva sospetti. «Cosa ci nasconde il ministro Giorgetti sul Pnrr?», ha chiesto il deputato del Pd, Piero De Luca. «Continua a esserci un quadro di assoluta opacità sull’avanzamento del piano con ritardi, buchi e ripetuti rinvii», ha aggiunto il parlamentare dem. Altro totem simbolico sull’indecisionismo meloniano è il tema delle concessioni balneari. La promessa della propaganda di destra, ben prima della campagna elettorale, si è infranta contro la realtà.

Ieri il governo ha incontrato gli imprenditori del settore, sul piede di guerra con tanto di sciopero pronto. Ma non c’è una soluzione definitiva a portata di mano. Il governo si può limitare a proporre un aggiornamento, che si legge slittamento. Lo aveva del resto fatto già con Bruxelles, spiegando che era necessario operare una ricognizione sulle coste italiane. L’eterna condizione di provvisorietà si manifesta in tutta la sua dirompenza su un altro tema-bandiera della destra, da Meloni a Salvini: la riforma delle pensioni. L’annuncio di rivoluzioni copernicane, per superare la legge Fornero, si è rivelato in un pannicello caldo con l’estensione di un anno di Quota 103, peraltro con l’aggiunta di ulteriori paletti.

Così, alla fine dell’anno, ci sarà bisogno di un altro intervento, probabilmente l’ennesima proroga. Perché i numeri del Def, seppure travicello, non lasciano spazio a voli pindarici sulla spesa previdenziale.

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