La preoccupazione per i fatti inopinati di Pisa è stata espressa da tanti analisti e, soprattutto, fatta propria in un’inappuntabile nota di Mattarella. Se dobbiamo affidarci alla magistratura per comprendere le responsabilità precise, dal punto di vista politico possiamo fare di più. Come accade spesso, la gravità politica di un fatto si deve valutare non limitandosi alle circostanze in sé, ma anche osservando le parole che in seguito sono intervenute a minimizzare o stigmatizzare quel fatto stesso.

In questo caso, si può ben dire che per certi versi le parole che sono seguite siano più inquietanti del fatto stesso. Cominciamo col dire che tutte queste parole si contestualizzano all’interno di due argini estremi: da un lato le parole eloquenti del presidente della Repubblica e dall’altro il silenzio immediato e altrettanto eloquente della presidente del Consiglio.

Ricordare le funzioni istituzionali non è evidentemente cosa da niente: al presidente della Repubblica sono assegnati quei poteri di garanzia – che il premierato intende smantellare – che dovrebbero salvaguardare da un eccesso di potere di chi guida il governo. Dunque chi ha parlato è il detentore di un potere che non contiene alcuna minaccia di eccessi e chi ha scelto di stare in silenzio è colei che per definizione può avere la tentazione di trasgredire i limiti del proprio potere. Ma, come ho detto, tra le parole dell’uno e il silenzio dell’altra vi sono state dichiarazioni che vanno interpretate con sottigliezza.

L’imprudenza politica

La linea dura scelta dal governo è per certi versi incomprensibile. Stavolta le vittime della repressione violenta non sono gli indesiderabili della destra: migranti, esponenti delle proteste territoriali, militanti di estrema sinistra. Sono giovani e sono italiani. Ora, al di là della preoccupante spiacevolezza del fatto che la nostra indignazione non si mobilita allo stesso modo per tutti coloro a cui viene sottratto il diritto costituzionale di manifestare, è evidente che proprio questa fattispecie particolare avrebbe richiesto – per coerenza politica – una maggiore accortezza da parte degli esponenti del governo.

Non è affatto detto che i propri elettori stiano dalla parte delle forze dell’ordine quando dall’altra parte ci possono essere i propri figli. Eppure non solo ciò non è accaduto, ma la scelta è ricaduta su una linea durissima di difesa della repressione. In modo particolare vorrei ricordare due dichiarazioni che a mio avviso rappresentano un salto di qualità nella tematizzazione stessa del pericolo autoritario.

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Le parole

La prima dichiarazione è avvenuta nelle ore immediatamente successive ai fatti. Non viene da una qualsiasi esponente del governo, ma dalla ministra che si è assunta il compito epocale di modificare la forma delle nostre istituzioni e della nostra Costituzione. Insomma, alla ministra Casellati non dovrebbe mancare l’equilibrio istituzionale e la sensibilità nei confronti dei pesi e contrappesi necessari affinché una democrazia non venga svuotata di senso, anche tenendo presente il suo ruolo precedente di Presidente del Senato.

Ecco, nel buon ritiro del giornalismo addomesticato della masseria di Bruno Vespa, Casellati ha risposto così alla domanda di rito su ciò che è avvenuto a Pisa: «Non mi piace questo tipo di protesta, noi abbiamo un problema serio che riguarda Hamas e Israele». Cosa tradisce questa risposta e perché è così inquietante? Perché il minimo di alfabeto democratico che la ministra dovrebbe frequentare consiste nel riconoscere che il compito di un governo – e delle forze dell’ordine – non è quello di garantire i tipi di protesta che piacciono (per cui non mancano esempi anche recenti, dai balneari ai tassisti ai trattori) ma precisamente le proteste che non piacciono.

Così per certi versi la risposta aggrava la situazione: il fatto che quella protesta non ti piaccia rende ancor più necessario il compito di garantirla pacificamente. I regimi e le dittature sono pieni di esempi di proteste diventate iconiche: Mussolini riempiva le piazze, come anche Putin (per fare un esempio su cui Casellati non può che essere d’accordo). Ciò significa che la differenza tra un regime autoritario e una democrazia non sta nell’assenza di proteste, ma nel fatto che nel primo caso si garantiscono solo le proteste gradite ai governi, nel secondo caso si garantiscono soprattutto le proteste non gradite ai ministri.

La seconda dichiarazione è quella del ministro Salvini e non delude le attese. Seguendo la strategia della dissimulazione e del rovesciamento dei fatti – strategia che è stata scelta dal governo tutto – Salvini difende le forze dell’ordine per partito preso e senza dare alcuna risposta in merito agli avvenimenti reali. Ora, in questa difesa a spada tratta – o a manganello esposto – delle forze dell’ordine si appalesa la gravità del momento che stiamo vivendo. Non c’è dubbio che in Italia la tentazione di far prevalere un ordine repressivo sia più che ventennale, risalendo alla storia degli effetti di Genova 2001.

Il governo e il Quirinale

Non lo ricordo per caso: l’attuale questore di Pisa era vicequestore e addetto all’ordine pubblico in quei giorni maledetti. In questi vent’anni la repressione è diventato un paradigma prevalente del controllo sociale. Ma per capire il potenziale salto di qualità a cui stiamo assistendo basta mettere insieme le parole di Mattarella, quelle di Salvini e il silenzio immediato di Meloni. Perché uno dei segni inequivocabili del disfacimento delle regole democratiche è da sempre l’istituirsi di un intreccio troppo stretto tra il governo e le forze dell’ordine.

Non è una novità, purtroppo. Ma il fatto che il governo garantisca alle forze dell’ordine una fiducia incondizionata anche di fronte ad avvenimenti in cui il limite della violenza legittima è palesemente oltrepassato, e lo faccia contro il presidente della Repubblica che invece ricorda che ci sono dei limiti che non vanno superati è molto preoccupante e rende visibile un conflitto tra poteri dello Stato che rischia velocemente di scivolare in un conflitto tra forme di convivenza.

Salvini fa il suo gioco: vuole un’alleanza forte tra il governo e le forze dell’ordine, contro ogni attenzione democratica. Alcuni tra le forze dell’ordine lo seguono con vigore, fino al punto di affermare esplicitamente di non riconoscere Mattarella come proprio presidente (come avvenuto qualche settimana fa). Il silenzio di Meloni copre questo gioco perverso che nasconde una minaccia le cui conseguenze rischiano di essere irreversibili.

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